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L’impresa familiare ex art. 230 bis c.c.: Cassazione 05.09.2012 n. 14908

La prova dell’esistenza di un’impresa familiare ex art. 230 bis c.c. (che può essere fornita in modo diretto o indiretto) e la prova della partecipazione all’attività e agli utili nella medesima impresa familiare (che può essere fornita anche mediante documenti)
A cura di Paolo Giuliano
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 Tra l'imprenditore singolo (individuale) e l'imprenditore collettivo (società), il legislatore ha prrvisto una serie di figure giuridiche intermedie, le quali, pur non potendo essere classificate come imprenditore collettivo, si avvicinano molto alle società, ma contemporaneamente, se ne distinguono in quanto restano saldamente ancorate nell'ambito della figura dell'imprenditore singolo, basta pensare all'associazione in partecipazione e all'impresa familiare.

Si tratta di istituti giuridici che permettono di soddisfare l'esigenza dell'imprenditore di ottenere degli aiuti nell'ambito aziendale, permettendo all'imprenditore di conservare la sua posizione di autonomia. Questo tipo di aiuti possono essere solo aiuti economici (come per l'associazione in partecipazione), in altri casi gli aiuti possono consistere anche nell'esercizio di attività all'interno dell'impresa individuale (come nell'impresa familiare ex art. 230 bis c.c.).

L'impresa familiare è regolata dall'art. 230 bis c.c. il quale dispone che "Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. Le decisioni concernenti l'impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell'impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all'impresa stessa. I familiari partecipanti all'impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi. Il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell'uomo. Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo. Il diritto di partecipazione di cui al primo comma è intrasferibile, salvo che il trasferimento avvenga a favore di familiari indicati nel comma precedente col consenso di tutti i partecipi. Esso può essere liquidato in danaro alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione del lavoro, ed altresì in caso di alienazione dell'azienda. Il pagamento può avvenire in più annualità, determinate, in difetto di accordo, dal giudice. In caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell'azienda i partecipi di cui al primo comma hanno diritto di prelazione sull'azienda. Si applica, nei limiti in cui è compatibile, la disposizione dell'articolo 732. Le comunioni tacite familiari nell'esercizio dell'agricoltura sono regolate dagli usi che non contrastino con le precedenti norme".

Caratteristica dell'impresa familiare è data dal fatto che l'istituto rimane sempre ancorato nell'ambito dell'imprenditore singolo, l'imprenditore rimane sempre unico titolare dell'impresa. Conseguenza diretta di quanto detto è quella secondo cui l'unico responsabile delle obbligazioni assunte nei confronti dei terzi è l'imprenditore e l'unico, eventualmente, esposto al fallimento è sempre e solo l'imprenditore.

Non influenza quanto detto il fatto che lo stesso art. 230 bis prevede "che le decisioni più importanti relative all'impresa"  sono adottate dai partecipanti alla stessa a maggioranza, in quanto, come è stato osservato,  si tratta solo di regole relative ad un rapporto interno di "gestione" (irrilevante all'esterno) e previsto solo per regolare i rapporti di "forza" tra imprenditore e partecipante all'impresa familiare.

Con l'impresa familaire l"imprenditore è avvantaggiato perchè permette di coinvolgere i familiari nella sua impresa, infatti, gli aiuti forniti all'imprenditore sono quelli provenienti dalla sua famiglia (per famiglia si intende il coniuge e i parenti fino al terzo grado, gli affini entro il secondo).

I componenti della famiglia sono avvantaggiati perchè pur prestando la propria attività nell'impresa in cambio hanno diritto al mantenimento e hanno diritto ad una quota degli utili  dell'impresa in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato.

Trattandosi sempre di un istituto che non si allontana dalla figura dell'imprenditore singolo, la "partecipazione" dei singoli familiari all'impresa familiare non è  trasferibile a terzi estranei alla famiglia.

Ovviamente, il problema di questo istituto riguarda la prova della sua esistenza (quanto meno al fine di distinguerlo da altri rapporti o istituti giuridici), infatti, lo stesso art. 230 bis c.c. prevede la possibilità che le norme sull'impresa familiare non si applicano se i partecipanti all'impresa decidono di regolare questa "collaborazione" con isitituti giuridici diversi dall'impresa familiare. Altro problema riguarda la quantificazione del lavoro prestato dai familiari nell'impresa da cui dipende la partecipazione agli utili del familiare (e, quindi, la quota agli utili).

Cassazione civ. sez. lav. del 5 settembre 2012 n. 14908

3.- Questa Corte ha già precisato (cfr. ex plurimis Cass. n. 9683/2003, Cass. n. 21966/2007) che in tema di impresa familiare (art. 230 bis c.c.), la predeterminazione, ai sensi dell'art. 9 della legge n. 576 del 1975 (integrativo dell'art. 5 del d.P.R. n. 597 del 1973) e nella forma documentale prescritta, delle quote di partecipazione agli utili dell'impresa familiare, sia essa oggetto di una mera dichiarazione di verità (come è sufficiente ai fini fiscali) o di un negozio giuridico (non incompatibile con la configurabilità dell'impresa familiare), può risultare idonea, in difetto di prova contraria da parte del familiare imprenditore, ad assolvere mediante presunzioni l'onere – a carico del partecipante che agisca per ottenere la propria quota di utili – della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell'impresa stessa che dell'entità della propria quota di partecipazione (in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato) agli utili dell'impresa. Ed ha chiarito che, con riferimento alla disciplina dell'impresa familiare, ove la ripartizione degli utili sia stata predeterminata tra le parti con atto scritto, come richiesto dalla normativa fiscale in materia (art. 3 d.l. 19 dicembre 1984 n. 853, convertito, con modificazioni, nella 1. 17 febbraio 1985 n. 17), il giudice non può disattendere il valore probatorio di tale scrittura, accertando l'insussistenza dell'impresa familiare, senza motivare adeguatamente sul carattere simulato dell'atto stesso (cfr. Cass. n. 9897/2003, Cass. n. 7655/98).

4.- Non si è discostata da tali principi la Corte territoriale con l'affermazione che, nel caso in esame, a fronte della produzione in giudizio di scritture private dalle quali emergeva l'inequivoca volontà di costituire l'impresa familiare con predeterminazione delle quote di partecipazione agli utili della stessa impresa, era onere dell'appellante provare l'insussistenza di tale impresa, dimostrando la simulazione del rapporto.

5.- Le contrarie affermazioni del ricorrente, secondo cui nella motivazione della sentenza impugnata non sarebbero stati evidenziati elementi tali da individuare con certezza i presupposti voluti dalla legge per la costituzione dell'impresa familiare, si risolvono, in realtà, nella contestazione diretta – inammissibile in questa sede – del giudizio di merito, giudizio che risulta motivato in modo sufficiente e logico con riferimento, come sopra accennato, all'esistenza di atti scritti con i quali era stata costituita l'impresa familiare ed alla mancata dimostrazione, da parte dell'appellante, che gli accordi che vi avevano dato origine erano rimasti poi ineseguiti e che era mancata in concreto quella effettiva collaborazione che costituisce elemento essenziale dell'impresa familiare.

6.- Nella fattispecie, la misura della partecipazione agli utili dell'impresa era stata quantificata dalle parti nella quota di partecipazione indicata nelle scritture private, alle quali si è fatto cenno, e perché l'esistenza degli utili è stata concretamente accertata mediante consulenza tecnica d'ufficio i cui risultati non sono stati minimamente contestati dal ricorrente. Al riguardo, va rimarcato che, secondo Cass. n. 9683/2003, la predeterminazione nella forma documentale prescritta dalla legge della quota di partecipazione agli utili dell'impresa familiare può risultare idonea, in difetto di prova contraria, ad assolvere mediante presunzioni l'onere della dimostrazione sia della fattispecie costituiva dell'impresa stessa che "dell'entità della propria quota di partecipazione (in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato) agli utili dell'impresa" (nello stesso senso, cfr. anche Cass. n. 9897/2003 cit., nonché Cass. n. 7655/98).

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Avvocato, Foro di Napoli, specializzazione Sspl conseguita presso l'Università “Federico II”; Mediatore professionista; Autore di numerose pubblicazioni in materia di diritti reali, obbligazioni, contratti, successioni. E' possibile contattarlo scrivendo a diritto@fanpage.it.
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