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Opinioni

L’arbitrato irrituale e la revoca dell’incarico

La Cassazione del 11.2.2015 n. 2664 ha stabilito che l’assenza di terzietà dell’arbitro irrituale designato con mandato collettivo deve essere proposta mediante l’azione di cui all’art. 1726 c.c., ossia prospettando una giusta causa di revoca, nonché la conseguente nullità della determinazione che sia stata adotta.
A cura di Paolo Giuliano
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Risulta evidente che il legislatore sta tentando di ridurre il numero dei procedimenti pendenti (ottenendo, così, una riduzione dei tempi complessivi di ogni giudizio) mediante c.d. soluzioni alternative al procedimento giudiziario o risoluzioni alternative al contenzioso ordinario o giudiziario.

Rientrano in questo schema la mediazione (obbligatoria) e la negoziazione assistita, il terzo tassello di questo sistema alternativo al procedimento è sicuramente l'arbitrato (rituale o irrituale). Mentre, però la mediazione e la negoziazione hanno avuto leggi specifiche, l'arbitrato non ha avuto dal legislatore lo stesso trattamento diretto, quanto meno, all'agevolazione (obbligatorietà e/o semplificazione e(o incentivazione) giuridica dell'istituto.

L'arbitrato non è sconosciuto all'ordinamento, ma è stato regolato dal codice di procedura civile con gli articoli da 806 a 840 cpc.

L'arbitrato si distingue in arbitrato rituale ed irrituale. Secondo la giurisprudenza della Cassazione formatasi in relazione alla disciplina in vigore precedentemente alla riforma del 2006 (e della riforma della legge   n. 5 del  1994), l'arbitrato rituale aveva natura di giudizio, rimesso in via sostitutiva, rispetto alla giurisdizione ordinaria, alla competenza di un soggetto diverso dal giudice, ed era caratterizzato dal concludersi con un "lodo" idoneo ad ottenere efficacia di sentenza esecutiva. Viceversa l'arbitrato irrituale era un mezzo di rimessione agli arbitri della soluzione di controversie in via negoziale, mediante un negozio (di accertamento o transattivo) fondato sul potere dispositivo delle parti trasferito agli arbitri.

Quindi, per distinguere se le parti avessero deciso di avvalersi di un arbitrato rituale o irrituale bisognava  comprendere se le parti avessero inteso affidare agli arbitri una funzione sostitutiva di quella propria del giudice ordinario, derogando alla sua competenza, ovvero conferire loro un mandato a definire la controversia sul piano negoziale, dovendosi optare, nel dubbio, per l'irritualità dell'arbitrato, in considerazione dell'eccezionalità della deroga alla competenza del giudice ordinario.

Dopo la riforma dell'arbitrato ad opera della legge n. 40 del 2006 ( e della legge n. 5 del 1994) deve ritenersi che il "dictum" arbitrale, anche nell'arbitrato rituale, va considerato un atto di autonomia privata, estraneo all'esercizio della giurisdizione, ad avvalersi della quale le parti rinunciano con il compromesso o la clausola compromissoria.

Ne deriva che, secondo tale orientamento interpretativo, non vi è una differenza ontologica fra l'arbitrato rituale e quello irrituale, avendo entrambi gli atti conclusivi natura di atti di autonomia privata e configurandosi in entrambi i casi la devoluzione della controversia ad arbitri come rinuncia all'azione giudiziaria ed alla giurisdizione dello Stato, nonché come opzione per la soluzione della controversia sul piano privatistico, attraverso il "dictum" di soggetti privati. Con la conseguenza che la distinzione tra arbitrato rituale e arbitrato irrituale non può fondarsi sul rilievo che nel primo, a differenza che nel secondo, le parti abbiano demandato agli arbitri una funzione sostitutiva di quella del giudice.

La differenza va, invece, ravvisata nel fatto che nell'arbitrato rituale le parti vogliono che si pervenga ad un lodo suscettibile di essere reso esecutivo e di produrre gli effetti di cui all'art. 825 c.p.c., da esperirsi con l'osservanza del regime procedurale e le garanzie – anche in relazione ai mezzi d'impugnazione – previsti dal codice di procedura civile, mentre nell'arbitrato irrituale esse intendono affidare all'arbitro la soluzione di controversie attraverso uno strumento negoziale atipico, non regolamentato, reso legittimo dal principio generale di autonomia privata consacrato nell'art. 1322 c.c. (e nei limiti di esso), non soggetto, a meno che le parti non le richiamino, alle regole procedimentali di cui al titolo ottavo c.p.c. – salvo che non coincidano con principi generali e inderogabili dell'ordinamento – insuscettibile d'impugnazioni diverse da quelle tipiche dei contratti.

Al fine di stabilire se le parti, con il compromesso o la clausola compromissoria abbiano voluto un arbitrato rituale o irrituale, l'indagine da compiere sia quella di accertare se esse, prevedendo il ricorso ad arbitri per la soluzione di determinate controversie, abbiano inteso demandarne la soluzione all'arbitrato regolato dal titolo ottavo del codice di procedura civile, con tutte le conseguenze sostanziali e procedimentali, ovvero abbiano inteso prevedere una forma, sostanziale e procedimentale, di soluzione di dette controversie, derogativa, in forza della libertà contrattuale prevista dall'art. 1322 c.c., della normativa generale dell'arbitrato contenuta nel codice di rito.

In questo contesto è opportuno sottolineare che  le parti devono partecipare alla nomina degli arbitri, essendo funzionale ad un insopprimibile valore di garanzia dell’imparzialità di chi è comunque chiamato a risolvere una controversia tra soggetti diversi, prescinde dalla natura rituale o irrituale dell’arbitrato.

Cass., civ., sez. I, del 11 febbraio 2015, n. 2664 in pdf

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Avvocato, Foro di Napoli, specializzazione Sspl conseguita presso l'Università “Federico II”; Mediatore professionista; Autore di numerose pubblicazioni in materia di diritti reali, obbligazioni, contratti, successioni. E' possibile contattarlo scrivendo a diritto@fanpage.it.
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