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Opinioni

Attivisti esclusi e candidati imposti dall’alto: finalmente il M5s diventa un partito

Le Parlamentarie del Movimento 5 Stelle che si stanno svolgendo in questi giorni sono al centro delle proteste di alcuni attivisti soprattutto per l’esclusione di alcuni candidati. Ma, come previsto dal regolamento, l’ultima parola su ogni candidatura spetta a Luigi Di Maio e Beppe Grillo. Che stanno giustamente esercitando questo potere. E così, finalmente, anche il M5s diventa un partito e come tutte le altre forze in campo sceglie attentamente la sua classe politica.
A cura di Stefano Rizzuti
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In questi due giorni (che potrebbero diventare tre) di Parlamentarie gli attivisti del Movimento 5 Stelle si sono trovati davanti qualche sorpresa: prima fra tutte l’esclusione di tanti candidati che volevano rappresentare il M5s nelle liste proporzionali in vista delle elezioni dei rappresentanti della Camera e del Senato del 4 marzo. Eppure non c’è poi tanto di cui sorprendersi, il regolamento di queste Parlamentarie parla chiaro: l’ultima parola su ogni candidatura spetta al capo politico (Luigi Di Maio) in collaborazione con il garante (Beppe Grillo). E saranno sempre loro a scegliere i nomi da giocarsi per i collegi uninominali.

Allora non deve sorprendere l’esclusione anche di alcuni nomi noti, come il vignettista Marione o l’ex assessore capitolino al Bilancio, Andrea Mazzillo, silurato dalla giunta romana dopo alcuni dissidi con la sindaca Virginia Raggi. Il MoVimento ha finalmente ammesso di essere un partito come tutti gli altri, le cui scelte sono dettate da (giuste) motivazioni politiche. Non è più il tempo di imbarcare chiunque nelle liste. Non a caso, tra gli esclusi di queste ore di votazioni sulla piattaforma Rousseau ci sono personaggi di vario genere: persone poco in linea con l’attuale MoVimento, opportunisti dell’ultima ora, candidati che non rispettano (per motivi penali o politici) le condizioni di base poste dai vertici su carichi pendenti o appartenenza precedente ad altre forze politiche.

Il M5s sta facendo esattamente quello che fanno tutti gli altri partiti da sempre: sta scegliendo la sua classe politica. E lo fa, giustamente, a priori. Dando poi la possibilità agli elettori di scegliere tra i candidati presentabili. Niente più e niente meno di ciò che fa il Pd o Forza Italia o Liberi e Uguali o chiunque altro. In alcuni casi, in questi partiti, sono le assemblee locali a decidere il candidato dei collegi. Ma sempre previa approvazione dei vertici. La stessa cosa sta avvenendo nel MoVimento. E sarebbe il caso di dire: finalmente. Selezionare preventivamente la classe dirigente altro non è che un segno di maturità che spazza in parte via il principio dell’uno vale uno ma che potrebbe dare credibilità al MoVimento.

Già, perché la credibilità si rischia di perdere quando i candidati pensano che il loro unico obiettivo sia parlare di sirene, scie chimiche o complotti. O quando i candidati sono persone che non hanno competenze né sono in grado di comportarsi civilmente di fronte agli avversari politici, magari riducendosi a insulti (qualche volta anche xenofobi e razzisti) sui propri social network. O, ancora, quando i candidati non cercano altro che gloria personale: perché alla fine a chi non farebbe comodo un posto in Parlamento senza aver mai profuso alcun impegno per meritarselo?

Certo, è inutile negare che alcune scelte – soprattutto quelle nei collegi uninominali – vengono prese per un calcolo meramente elettorale, ma anche questo fa parte del gioco. D’altronde quale forza politica punta a non schierare i candidati più forti? Se vuoi importi devi puntare sul cavallo vincente, non sul primo che passa. Il MoVimento, inoltre, nella scrematura delle candidature ha puntato anche su un altro elemento che potrà tornare utile soprattutto in futuro: la fedeltà degli eletti. La scorsa legislatura – la prima in Parlamento per il M5s – ha visto un record di abbandoni e cambi di gruppo per i neo-eletti pentastellati. E in qualche modo si è quindi pensato di correre ai ripari per il prossimo quinquennio: invece di eliminare dopo chi non è in linea con Di Maio e Grillo, meglio farlo fuori prima. Potrebbe essere questo, per esempio, proprio il caso di Mazzillo che ha già rotto con il MoVimento a Roma su alcune decisioni della giunta capitolina, approvate – almeno apparentemente – anche dai vertici nazionali.

E allora ben vengano le esclusioni e le decisioni prese a tavolino se servono a portare avanti candidature credibili e magari inattaccabili. Una mossa che potrebbe pagare dal punto di vista elettorale e che, soprattutto, rende il M5s anche ufficialmente un partito come gli altri che per funzionare ha bisogno di decisioni provenienti dai vertici ma questa volta – magari al contrario di quanto avvenuto in passato – alla luce (o quasi) del sole. Con buona pace di chi pensa ancora che il MoVimento sia quello del ‘Vaffa' e o dell'uno vale uno.

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