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Quando la violazione della privacy comporta il risarcimento del danno: Cassazione 28.05.2012 n.8451

Gli elementi necessari per ottenere il risarcimento del danno in caso di violazione del diritto alla risarvetezza o del diritto alla privacy sono quelli propri di ogni illecito civile: il fatto illecito, l’evento o la conseguenza dannosa e il rapporto o nesso di causalità tra fatto ed evento dannoso.
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A cura di Paolo Giuliano
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 Spesso si sente parlare di risarcimento del danno per violazione del diritto alla privacy. Solo al fine di inquadrare meglio il caso analizzato dalla Cassazione è opportuno ricordare che il campo del diritto alla privacy o alla riservatezza è molto ampio spazia dalla classica foto scattata al Vip fino a giungere al trattamento dei dati o notizie personali.

La questione esaminata dalla Cassazione tratta di un aspetto particolare della "privacy" o "riservatezza", infatti riguarda un'ipotesi di illecito trattamento (illecita diffusione) di dati (notizie) personali. Solo al fine di fornire una base normativa più specifica è possibile ricordare che il Decreto Legislativo del 30 giugno 2003  n. 196 denominato "Codice in materia di protezione dei dati personaliha regolato la materia.

Comunque, indipendentemente dal ramo o aspetto della privacy o della riservatezza che viene violato, difficilmente si spiega o ci si interroga su quali sono i presupposti per poter ottenere un risarcimento.

La sentenza della Cassazione del 2012 n. 8451 permette di far luce proprio su tale aspetto, è possibile dire che in primo luogo occorre che sia violata la privacy, intesa come diritto a non divulgare notizie relative ad un determinata persone a terzi estranei, o come nel caso esaminato dalla Cassazione (l'illecita divulgazione di dati parsonali relativi alla posizione debitoria – creditoria di un determinato soggetto), in particolare nel caso specifico una banca aveva inviato una missiva relativa all'esposizione finaziaria del debitore alla madre di quest'ultimo.

Il debitore (figlio) contesta alla banca l’illecito trattamento del suoi dati personali  e la violazione del segreto bancario da parte Banca. E, ritenendo che in seguito a questo evento, la madre avuta contezza della esposizione debitoria del figlio, avesse deciso di non procedere più a delle donazioni, dunque, chiedeva alla banca il risarcimento del danno patrimoniale (quantificato nel valore patrimoniale dell'immobile non ricevuto dalla genitrice) e non patrimoniale.

Ora, in base alla normativa vigente per risarcire il danno non basta l'esistenza di un fatto (comunicazione illegittima) e la mera esistenza di un evento (revoca della donazione), ma è anche necessario che tra l'evento sia provocato da quel fatto, cioè è necessario che tra l'evento sia legato al fatto dal quello che in termini giuridici viene chiamato "nesso di causalità".

Quando manca il nesso di causalità o il rapporto di causalità (la cui prova dell'esistenza deve essere fornita da colui che ri ritiene danneggiato) non è possibile sostenere che un determinato evento discende e/o è prodotto da un determinato fatto, questo esclude che colui che subisce l'evento possa chiedere il risarcimento del danno all'autore del fatto.

Cassazione civ.  sez. I del  28 maggio 2012 n.8451

 Il tribunale ha osservato, sulla base di una valutazione attenta delle risultanze processuali, che in realta' la  mancata stipulazione della donazione dell’appartamento da parte della madre del ricorrente in favore di  questi  non  risultava  provato  che  fosse  dovuta  alla  comunicazione  da  parte  della  banca  della  situazione  debitoria  del  figlio  bensi'  fosse  attribuibile  alla mancanza di convinzione della genitrice a stipulare l’atto  risultante gia' in epoca antecedente alla comunicazione dei dati da parte della banca. In  altri  termini  la  sentenza  impugnata  ha  rilevato  la  mancanza  di  prova  da  parte  del  ricorrente  della  esistenza di un nesso di causalita' tra la predetta comunicazione e la decisione della madre di non dar corso  alla donazione dell’immobile. Tale argomentazione e' corretta in punto di diritto.

Va ricordato, che l’art. 15, comma primo, del d.lgs. n. 196  del  2003  espressamente  stabilisce che ‘Chiunque cagiona danno ad altri per effetto del trattamento di dati personali e' tenuto al  risarcimento ai sensi dell’articolo 2050 del codice civile’. In  applicazione  dei  criteri  stabiliti  dal  citato  articolo  2050 del  codice  civile  in  tema  di  responsabilita'  per  esercizio  di  attivita'  pericolosa,  questa  Corte  ha  ripetutamente  affermato  che  la  presunzione  di  colpa  a  carico del danneggiante posta dall’art. 2050 cod. civ. presuppone il previo accertamento dell’esistenza del  nesso eziologico – la cui prova incombe al danneggiato – tra l’esercizio dell’attivita' e l’evento dannoso, non  potendo il soggetto agente essere investito da una presunzione di responsabilita' rispetto ad un evento che  non e' ad esso in alcun modo riconducibile. Sotto il diverso profilo della colpa, incombe invece sull’esercente  l’attivita' pericolosa l’onere di provare di avere adottato tutte le misure idonee a prevenire il danno (Cass.5080/06; Cass. 19449/08; Cass. 4792/01; Cass. 12307/98).

Le censure che il ricorrente muove a tale motivazione in punto di diritto non colgono nel segno. Nel caso di specie non rileva infatti l’inversione dell’onere della prova previsto dall’art. 2050 c.c., secondo  cui chi cagiona un danno nell’esercizio di una attivita' pericolosa e' tenuto a risarcire i danni se non prova di  avere  adottato  tutte  le  misure  necessarie  a  risarcire  il  danno,  poiche'  non  e'  stato  su  tale  elemento  che  il  Tribunale  ha  fondato  la  propria  decisione,  ma,  come  detto,  sulla  mancanza  di  nesso  di  causalita' tra  il  comportamento illecito e l’evento dannoso, in relazione al quale non si rinviene alcuna esplicita censura in  punto di diritto. Per  lo  stesso  motivo  e'  del  tutto  priva  di  rilevanza  la  censura  che  si  riferisce  alla  esistenza  del  danno  in  re  ipsa, non essendosi anche in tal caso il Tribunale pronunciato in alcun modo sulla inesistenza del danno ne'  sulla prova del suo ammontare.

Anche  il  secondo  motivo,  con  cui   si  la  ritenuta  insussistenza del  nesso  di  causalita'  tra  la  comunicazione  della  banca  e  la  mancata  stipula  della  donazione, e' inammissibile. Il Tribunale, come gia' rilevato, ha ritenuto l’insussistenza del predetto nesso sulla base di una valutazione  attenta delle risultanze processuali, In particolare, ha accertato la mancanza di convinzione della genitrice a  stipulare l’atto risultante gia' in epoca antecedente alla comunicazione dei dati da parte della banca. A  tale  proposito  il  Tribunale  ha  acclarato,  tramite  la  deposizione  del commercialista  della  madre  del  ricorrente e la lettera inviata dal primo a quest’ultima in data 14.3.2006, che, a fronte della urgenza di  stipulare l’atto prima delle elezioni politiche dell’aprile 2006, a seguito delle quali sarebbe stato prevedibile  che le  donazioni  tra  genitori  e  figli  sarebbero  state  sottoposte  nuovamente  a  tassazione,  ed  alla  data  gia'  fissata  per  la  stipula  innanzi  al  notaio,  la  signora  G.  aveva  ritenuto  di  non  dar  corso  alla  vicenda.  Da  tale  circostanza ha desunto che quest’ultima non  aveva  maturato  alcuna  decisione  in  proposito  onde  non  poteva ritenersi che la comunicazione della banca della situazione debitoria del figlio l’avesse dissuasa da  una decisione ormai presa.
Trattasi  di  una  valutazione  in  punto  di  fatto  logicamente  argomentata  e  basata  su  elementi  obiettivi  di  giudizio acquisiti dall’attivita' istruttoria e come tale non censurabile in sede di legittimita'.

Il ricorrente censura tale motivazione affermando che la stessa era basata su un esame parziale degli atti e  che da una valutazione completa degli stessi, e, in particolare, delle lettere della signora G. del 6 settembre  2006 e del 18 agosto 2007 nonche' dalle sue stesse dichiarazioni, sarebbe emerso con tutta chiarezza che in  realta' fu proprio la comunicazione della Banca a far cambiare idea alla signora G.  Sul punto e' appena il caso di rammentare che l’onere di adeguatezza della motivazione non comporta che il  giudice del merito debba occuparsi di tutte le allegazioni della parte, ne1 che egli debba prendere in esame,  al fine  di  confutarle  o  condividerle,  tutte  le  argomentazioni  da  questa  svolte.  È,  infatti,  sufficiente  che  il  giudice dell’impugnazione esponga, anche in maniera concisa, gli elementi posti a fondamento della  decisione  e  le  ragioni  del  suo  convincimento,  cosi'  da  doversi  ritenere  implicitamente  rigettate  tutte  le  argomentazioni  incompatibili  con  esse  e  disattesi,  per  implicito,  i  rilievi  e  le  tesi  i  quali,  se  pure  non  espressamente esaminati, siano incompatibili con la conclusione affermata e con l’iter argomentativo  svolto  per  affermarla  (Cass.,  n.  696  del  2002;  n.  10569  del  2001;  n.  13342  del  1999);  e'  cioe'  sufficiente  il  riferimento  alle  ragioni  in  fatto  ed  in  diritto  ritenute  idonee  a  giustificare  la  soluzione  adottata,  (Cass.  n. 9670 del 2003; n. 2078 del 1998).

Nel  caso  di  specie  pertanto,  il  tribunale  ha  correttamente  selezionato  gli  elementi  ritenuti  rilevanti  ai  fini  del decidere ed in base ad essi ha argomentato la propria decisione. Le  censure  che  il  ricorrente  propone  a  tale  motivazione  tendono  in  realta'  a  sollecitare,  contra  ius  e  cercando di superare i limiti istituzionali del giudizio di legittimita', un nuovo giudizio di merito, in contrasto  con  il  fermo  principio  di  questa  Corte  secondo  cui  il  giudizio  di  legittimita'  non  e'  un  giudizio  di  merito  nel  quale  possano  sottoporsi  alla  attenzione  dei  giudici  della  Corte  di  Cassazione  elementi  di  fatto  gia'  considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass.n, 12984 del 2006; Cass., 14/3/2006, n. 5443).

Resta da dire della censura relativa al mancato riconoscimento del danno non patrimoniale. Tale  censura  e'  infondata  e  per  certi  versi  inammissibile  in  base  alle  stesse  argomentazioni  espresse  nell’esame del primo motivo del ricorso. È  infatti  evidente  che, se non esiste il nesso di causalita' tra il fatto illecito e l’evento dannoso, tale  circostanza  vale  sia  in  riferimento  al  danno  patrimoniale  che  a  quello  non  patrimoniale,  come  correttamente affermato dal tribunale. In  tal  senso  le  censure  del  ricorrente  non  colgono  la  citata  ratio  decidendi,  limitandosi  ad  affermare  la  sussistenza di elementi comprovanti il danno non patrimoniale.

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Avvocato, Foro di Napoli, specializzazione Sspl conseguita presso l'Università “Federico II”; Mediatore professionista; Autore di numerose pubblicazioni in materia di diritti reali, obbligazioni, contratti, successioni. E' possibile contattarlo scrivendo a diritto@fanpage.it.
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