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Opinioni

Viva il taxi Uber! (ma a Londra non sanno guidare)

Ho finalmente provato il nuovo servizio taxi Uber, quello dell’app gratuita. Che sta scatenando proteste in tutta Europa. E i cui conducenti non sanno guidare (ma continuerò a prenderlo).
A cura di Michele Azzu
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Ho finalmente provato Uber. Il nuovo servizio di taxi – nato a San Francisco – che sta creando malumori in tutta Europa. Da Londra a Francoforte, passando ovviamente per l’Italia, i tassisti tradizionali protestano da mesi contro questi nuovi “colleghi” che, usando l’app della compagnia americana, riescono a fornire un serivizio alternativo. E spesso più economico.

“Sul tragitto che dobbiamo fare spenderemo circa 13 sterline”, mi spiega la mia amica che vive a Londra. Sono ospite da lei qualche giorno, e utilizzeremo Uber per la maggior parte delle nostre serate, almeno 10 corse in 7 giorni. App, carta di credito, in carrozza e via. “Ma quanto avremmo speso con un cab (taxi londinese) normale?”, chiedo alla mia amica mentre ci dirigiamo verso casa. “3 o 4 sterline in più”, risponde. Sarebbero circa 4 o 5 euro. Un bel risparmio per chi si sposta in taxi di frequente.

Diciamo la verità, i taxi normali costano troppo. In Italia – è la mia sensazione – forse anche più che all’estero. Per questo è con rammarico che devo ammettere che il servizio fornito da Uber, almeno secondo la mia esperienza, è stato deludente. Ma prima, due parole su Uber. Questo nuovo servizio di trasporto è diventato famoso perché è stata una delle app gratuite più scaricate su smartphone. La compagnia si espande in Europa, e arrivano le proteste: l’ultima solo ieri a Londra. Perché? Mentre le vecchie licenze di taxi costano care (circa 150-300mila euro in Italia), per Uber basta una licenza Ncc (noleggio con conducente). Che, in teoria, dovrebbe servire solo per prenotare un conducente per un determinato tragitto a una certa ora (cosa che i taxi non dovrebbero fare). Ma questo, nella pratica, spesso non succede. E nel resto d'Europa i problemi sono simili.

Già, perché un veicolo Uber si prenota tramite l’app che geolocalizza la vettura più vicina. Insomma, i confini sono labili, i regolamenti e le licenze nazionali ingarbugliati, i tassisti incazzati. E arrivano le sanzioni: in Germania, nei giorni scorsi, il tribunale di Francoforte ha intimato alla compagnia di cessare l’attività. Blocco, però, revocato nelle scorso ore. Mentre a Genova, poche ore dopo il lancio di Uber – terza città italiana dopo Milano e Roma – c’è già un primo conducente multato di 1.700 euro per via della licenza.

Questa è la vicenda. Che a me, da cliente, può interessare anche marginalmente. Per me il problema è un altro: a Londra i conducenti Uber non sanno guidare. Su dieci autisti con cui ho viaggiato nel giro di 7 giorni solo due sapevano guidare. Rallentare sui dossi? Non esiste: via sparati come se non ci fossero. Le curve? Prese come se il volante fosse il timone di chissà quale antico galeone di pirati all’assalto di una fregata: “Qui dietro ci stiamo spostando da una parte all’altra!”

Di prendere le strade principali non se ne parla. Zig-zag, serpentine, avanti e indietro: a seguire sul proprio smartphone (aprendo Google Maps) i tragitti ingegnosi dei conducenti di Uber londinesi, non si capisce niente. “Tutte le stradine stiamo facendo, eh”, commenta la mia amica ridendo, in una delle nostre corse. Un paio di volte ho perfino avuto paura. Come quando il conducente della sera di martedi ha inchiodato di botto per far passare un’auto della polizia che correva a sirene spiegate. E pensare che entrambe le corsie di quella strada erano bloccate per farla passare, il mio autista non ci aveva fatto caso.

L’ultima sera rimarrà per sempre nella mia memoria. Nella corsa su Uber per andare alla stazione di Liverpool Station . Ero piuttosto incazzato: il conducente non riusciva in nessun modo a trovare la stazione nel navigatore, io avevo l’aereo due ore dopo. “Partiamo comunque, poi ci penserà l’app di Uber a trovare la stazione!”, mi dice il conducente speranzoso, come a farmi intendere che avrei dovuto fidarmi ciecamente. E, in effetti, in 20 minuti ce l’abbiamo fatta. Sono a Liverpool Station. Solo che l’autista mi ha portato all’ingresso merci, o da dove entrano i vagoni, certo è che non posso scendere qui e tentare di circumnavigare tutta la stazione di una metropoli. Non è mica la stazione di Cuneo.

L’autista, disperato, chiede indicazioni all’unica persona sulla strada a quell’ora, un usciere di albergo. Che ci dà la direzione. Ma ancora non basta: sono costretto a prendere lo smartphone, connettermi in roaming – ancora non voglio sapere quanti soldi ho speso per quella connessione – aprire Google Maps e dare le direzioni. Con tanta paura di perdere l’aereo, e alla faccia del risparmio, con tutto il tempo perso a capire dove andare e con i soldi che avrò speso per quella connessione all’estero.

Insomma, viva la concorrenza, viva il futuro, viva le app. Viva Uber. Anche perché, diciamolo, grazie a loro ora i vecchi Taxi forse abbasseranno le tariffe, adotteranno app e servizi al passo coi tempi. Poi, se l'autista non ti è piaciuto puoi lasciare un commento negativo, come su Tripadvisor (e quindi col tempo lo standard di prestazioni dovrebbe alzarsi). Inoltre, a differenza dei soliti tassisti che spesso non rilasciano ricevuta, con Uber si fa tutto via carta e risulta impossibile evadere il fisco. Però, ecco, non aspettevi la qualità.

“Ma allora perché lo hai preso per dieci volte di fila se era così disastroso Uber?”, chiederà qualcuno. Per lo stesso motivo per cui sta spopolando ovunque: perché è così economico, e perché è così comodo prenotare dallo smartphone. Certo, fino al momento in cui metti piede dentro. Sarà meglio evitare di pensarci.

Foto: Flickr  The Adventurist (cc creative commons)

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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