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Opinioni

Sequestri, segnalazioni e minacce: se in Italia la polizia non garantisce il diritto al dissenso

Il capo della Polizia Franco Gabrielli ha replicato alle critiche sulla gestione della comunicazione ufficiale e su alcune scelte in tema di ordine pubblico. Ha respinto con forza l’accusa di “allineamento” alla linea politica del Viminale leghista e ha fatto una piccola autocritica su alcuni comportamenti individuali degli agenti. Ma, ahinoi, non ha dissipato i dubbi sul ruolo della Polizia: anzi.
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Ne avevamo scritto qualche giorno fa: è tempo di una seria riflessione sulle scelte operate dalla Polizia di Stato in queste settimane di campagna elettorale e, più in generale, sul clima determinato dalla gestione "divisiva" di Matteo Salvini al Viminale. Ora sembra accorgersene anche il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio, che, pur accomunando violenti e antifascisti sotto l'ombrello degli "opposti estremismi", scrive preoccupato: "Vedo e sento molto nervosismo in Italia. Alla Sapienza oggi sono tornate le camionette delle Forze dell’Ordine come non accadeva da tempo. C'è una tensione sociale palpabile, non solo a Roma, come non si avvertiva da anni. Sequestri di telefonini, persone segnalate, striscioni ritirati". Solo nelle ultime 24 ore abbiamo visto il sequestro di due striscioni (uno dei quali recitava semplicemente "Non sei il benvenuto" e davvero ci piacerebbe sapere in che modo potesse rappresentare un pericolo all'ordine pubblico), un ragazzo schiaffeggiato a 20 centimetri da agenti che fingono di non vedere l'aggressore, la scorta concessa a Forza Nuova per permettere la contestazione – caccia all'uomo nei confronti di Mimmo Lucano. Ancora prima, una coppia era stata trascinata via da un comizio di Salvini e lo stesso ministro era sbottato contro alcuni contestatori, chiedendo alla polizia di tenerli a bada. E poi l'ANPI minacciata, i telefoni sequestrati, l'agibilità politica e l'impunità concesse a Casapound per i fatti di Casal Bruciato, gli antifascisti confinati in un angolo, mentre Casapound banchettava a due metri dalla casa in cui era entrata legittimamente una famiglia rom, poi ancora striscioni sequestrati e finanche un tweet dal profilo ufficiale per rispondere a muso duro a una critica di un cittadino.

Franco Gabrielli, in una intervista al Corsera, ha affrontato il tema delle critiche all'operato e alla comunicazione della Polizia, ammettendo qualche errore (il cellulare "sequestrato" dopo il selfie con Salvini, la minaccia di denuncia all'ANPI), ma rispedendo al mittente le altre critiche, giustificando l'ingresso in case private per rimuovere alcuni striscioni e difendendo senza se e senza ma la scelta di rispondere in quel modo e con quei toni a Roberto Saviano su Twitter. Nello specifico, non solo ha detto che quel tweet dall'account ufficiale della Polizia di Stato contro un cittadino è stato "sollecitato e autorizzato", ma ne ha anche rivendicato anche la liceità di una risposta a un privato cittadino “senza infingimenti o ipocrisie”. Il capo della Polizia però si è spinto ancora più in là, spiegando di essere "infastidito e preoccupato quando il ministro dell’Interno viene definito ministro della Malavita”, mentre confermava di non trovare alcunché di strano nell'uso improprio della divisa fatto da Salvini, bollando il tutto come "polemica pretestuosa" (solo il giorno prima aveva sprezzantemente definito "anime belle" e "puristi della sensibilità" altre voci critiche nei confronti della polizia).

Le risposte del capo della Polizia, in sostanza, hanno aumentato la sensazione di un cambiamento in atto, di un pericoloso cambiamento in atto, aggiungerei. Perché quello che Gabrielli pare non capire è che non basta dire "la polizia non fa politica" se poi adotta un certo registro comunicativo e compie scelte che sono politiche. Replicare a una critica sul merito di un fatto (smentire una fake news) è un conto, ribattere (con quei modi e quei toni) a una critica "politica" ed esprimere valutazioni sui giudizi di un cittadino nei confronti di un politico è completamente diverso. Non serve dire "siamo al servizio dello Stato, non di un politico" se contemporaneamente si interviene nel dibattito pubblico definendo "penose", "anime belle" chi ha una posizione diversa. Non ha senso ribadire di essere un'istituzione e non un organo politico se poi si mette da parte il tono istituzionale e si anticipa di voler rispondere "senza ipocrisie" a un qualunque cittadino osi criticare il merito delle scelte fatte dal Viminale e dai quadri dirigenti delle forze dell'ordine. Non regge la linea del "non prendere posizione", se poi gli agenti lasciano bonariamente campo libero a manifestazioni razziste e cacciano dalle piazze chi contesta anche civilmente il ministro. C'è un grosso tema, totalmente eluso: chi garantisce il diritto al dissenso dei cittadini in un crescente clima di tensione e intimidazioni?

C’è una corrispondenza di amorosi sensi tra le questure e la regia politica che siede al Viminale, confermata peraltro da alcune dichiarazioni di esponenti del sindacato di destra della polizia, che si spinge a dire che esiste “un connubio indissolubile” con la Lega di Salvini. Ed è preoccupante non tanto nella misura in cui ci si trovi a registrare una "maggiore attenzione" del Viminale alle esigenze e alle problematiche degli operatori di polizia, che un qualunque ministro ha il dovere di tutelare e supportare. Il punto è che la sicurezza che è chiamato a garantire chi detiene il monopolio della forza, rappresenta le istituzioni o riveste incarichi pubblici, investe anche concetti come la libertà di espressione, di dissenso, di opinione e manifestazione. La separazione dei poteri è un concetto cardine del nostro ordinamento e in tal senso non possono esistere zone grigie, confini incerti e posizioni fumose: mai, in nessun caso, la polizia può entrare nel dibattito politico, mai può agire in nome e per conto di una singola forza politica. Concetti che devono essere ben chiari a tutti i componenti delle forze dell'ordine, dai dirigenti agli agenti.

Ciò che sembra sfuggire è il fatto che posizioni confuse e superficiali, ad esempio nei confronti di neofascisti ed estrema destra che tengono manifestazioni centrate sull'odio etnico e razziale, potrebbero determinare un comportamento conciliante, lassista o addirittura compiacente da parte di chi è sul campo. Che spesso è chiamato a prendere decisioni rapidamente e poco lucidamente: e se le indicazioni sono confuse e allusive…

Solo un esempio delle (tante) falle nel ragionamento di Gabrielli, che rimanda alla "confusione" che sembra regnare in questo momento tra questure e Viminale. Rispondendo alle critiche su gestione Casapound / Rom, dice: "Se mi permette, il fatto che siano stati protetti dalla polizia è un segnale dell’attenzione della nostra amministrazione verso i diritti di tutti. E che non siamo interessati alle fortune elettorali di chi siede al Viminale". E invece no, proteggere i cittadini vittime di tentativi di aggressione è un vostro dovere non è una concessione che fate per dimostrare di essere "super partes". Non è un gesto politico, è l'applicazione delle leggi dello Stato. Non è un atto di resistenza, ma la tutela minima dei principi democratici e dello stato di diritto. Che quei cittadini siano rom non c'entra assolutamente nulla.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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