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Terzo Polo, perché è saltato il matrimonio politico tra Matteo Renzi e Carlo Calenda

Serviva un momento fondativo, una vera unione politica e programmatica che superasse il cartello elettorale. Ma Matteo Renzi e Carlo Calenda hanno evidentemente progetti diversi e strategie inconciliabili. Proviamo a capire cosa è andato storto.
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Nel caos che regna nel Terzo Polo, con la rottura fra Italia Viva e Azione, c’è una variabile che più di tutte andrebbe considerata e che più di tutte ha condizionato e condiziona scelte e posizionamenti: il tempo. Se provassimo a guardare il percorso della coppia Matteo Renzi – Carlo Calenda, infatti, noteremmo come sia stato influenzato in modo dirimente da tempistiche strettissime, che hanno nascosto contraddizioni e distanze piuttosto evidenti, facendo passare in secondo piano problemi strutturali e una buona dose di diffidenza reciproca.

L’abbraccio elettorale fra Azione e Italia Viva, per cominciare, non è stato il risultato di un lungo processo di avvicinamento politico e di convergenza su un programma comune, ma il piano di emergenza, una volta saltate trattative condotte separatamente da Renzi e Calenda col Partito democratico di Enrico Letta. Non c’era tempo per soluzioni creative, non c’era tempo per risolvere le complessità di un’operazione importante, non c’era tempo per appianare le distanze tra i due leader e per trovare una quadra alla madre di tutte le differenze: l’unione di un partito strutturato in senso tradizionale (benché giovane) e con una classe dirigente esperta, con una formazione politica più moderna, a metà fra un collettore di energie nuove e un rifugio per politici in uscita dalle altre formazioni centriste.

Non chiamare le cose con il proprio nome è stato un errore che ha generato contraddizioni su contraddizioni. Il Terzo Polo era un cartello elettorale e come tale si è presentato agli elettori. Paradossalmente, ha scoperto di poter esistere, crescere e strutturarsi quando il buon risultato delle Politiche e le tribolazioni di Pd e Forza Italia suggerivano che ci fosse grande spazio per una creatura centrista, a forte connotazione europeista e con una chiara impronta liberal-democratica.

Costruire la nuova casa dei moderati, però, è operazione molto complessa.

Ed era apparso chiaro fin da subito che non bastava più l’approccio emergenziale con cui erano stati mossi i primi passi tra Azione e Italia Viva. Serviva un momento fondativo, una vera unione politica e programmatica di due gruppi lontani per formazione e provenienza, ma soprattutto con due punti di riferimento molto distanti. Qui si è arenata la transizione da cartello elettorale a partito o addirittura a “polo”.

E qui torna in gioco il fattore “tempo”. Perché nel breve volgere di qualche mese il quadro politico è cambiato radicalmente. Giorgia Meloni ha perso quella carica rivoluzionaria che aveva avuto all’inizio della sua esperienza a Palazzo Chigi e che avrebbe dovuto spingere verso il centro i moderati di destra; Matteo Salvini ha cambiato strategia e sta recuperando margini di movimento; Forza Italia si sta riorganizzando (capigruppo, incarichi di partito, eccetera), seppur nel quadro di una difficile transizione di potere. La previsione secondo cui la vittoria alle primarie del Pd di Elly Schlein avrebbe spinto i riformisti e i libdem verso Azione/Iv si è rivelata fallace o quantomeno affrettata. Sia per la nota ritrosia delle correnti dem di lavare i panni in pubblico (come Renzi sa bene, nel Pd si preferiscono i caminetti a Twitter), sia perché l’emergere della figura di Schlein pare poter mettere in moto un nuovo meccanismo di polarizzazione (con Meloni), che finirebbe addirittura per ridurre lo spazio per un’iniziativa centrista.

Come andrà finire tra Azione e Italia Viva

Insomma, che l'entusiasmo si sia raffreddato è quasi un dato di fatto. E per settimane Azione è sembrata la sola componente che davvero stesse lavorando per il partito unico, mentre dall'altra parte si traccheggiava e ci si preparava al piano B.

C'è infatti un ulteriore elemento che in qualche modo ha contribuito a bloccare/rallentare la costituzione del partito unico. È il fatto che non vi sia una reale urgenza di farlo. O meglio, che i renziani non riconoscano la necessità di farlo ora e con decisione. Il governo Meloni è tutto sommato solido e non sono in vista clamorosi ribaltoni. L'opposizione parlamentare è balcanizzata e debole, che Iv e Azione siano assieme o separate cambia poco (qualche problema legato al gruppo al Senato, peraltro più economico che politico). Soprattutto, all'orizzonte non ci sono test elettorali di particolare rilevanza, che magari potrebbero richiedere un'offerta politica credibile e ben strutturata fin da subito. Anzi, andare da soli alle Elezioni Europee potrebbe quasi essere un vantaggio (almeno in termini di autonoma scelta dei candidati). C'è tempo, insomma. E non preoccupa neanche la ripercussione di questa confusione, considerando la volubilità delle dinamiche di consenso e la reale penetrazione nell'opinione pubblica di una discussione che è in larga parte per gli addetti ai lavori.

Detto in altri termini, al matrimonio politico mancano elementi importanti, come la volontà e la convenienza, mentre abbondano le complessità, soprattutto dal lato di Italia Viva. C'è un lungo inverno all'opposizione da passare e farlo sacrificando visibilità, risorse, simboli (la Leopolda!) e potere all'interno del proprio partito non deve essere sembrato molto conveniente a Matteo Renzi. Che ha un ulteriore motivo per allungare le tempistiche: ora il leader sarebbe senza se e senza ma Carlo Calenda; dopo qualche mese di stillicidio e logoramento, chissà…

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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