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La divisione endoesecutiva o interna al processo esecutivo: Cassazione del 18.04.2012 n. 6072

In caso di beni in comunione, l’esecuzione forzata avente ad oggetto la quota del debitore porta allo scioglimento della comunione, con una divisione giudiziale eseguita durante il processo esecutivo.
A cura di Paolo Giuliano
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Il creditore che deve riscuotere quanto dovuto dal debitore, molto spesso si trova a dover procedere con il recupero coattivo del credito.

Quando il creditore è costretto ad agire coattivamente, la legge riconosce al creditore la possibilità di scegliere il bene del debitore da attaccare per potersi soddisfare. E' ovvio che il creditore cercherà sempre di scegliere beni facilmente liquidabili, si pensi, ad esempio, al conto corrente del debitore oppure a beni mobili o immobili facilmente vendibili.

Purtroppo, però, per svariati motivi, non sempre il creditore ha a sua disposizione beni del debitore facilmente liquidabili (anzi il debitore potrebbe essere titolare solo di una quota di una comunione), in questi casi il creditore o rinuncia a recuperare il proprio credito, oppure, deve iniziare la procedura esecutiva sui beni che trova (es. quota di comproprietà sul bene).

Se il creditore decide di colpire la quota del debitore su beni in comproprietà, risulta evidente che ove il creditore dovesse mettere in vendita solo la quota astratta (difficilmente troverebbe un acquirente della quota) o se lo trova sarebbe costretto a vendere la quota astratta ad un prezzo inferiore a quello che potrebbe realizzare se alienasse un bene in proprietà esclusiva.

Ecco, dunque, che diventa opportuno effettuare una divisione (anche durante il procedimento esecutivo) che elimini la contitolarità tra il debitore ed altri soggetti estranei al rapporto di debito, al fine di poter procedere sui beni che saranno assegnati in via esclusiva ai debitore (siano questi beni in natura o l'equivalente in denaro del valore della quota).

La Cass., civ. sez. III, del 18 aprile 2012 n. 6072  interviene a individuare i principi genenerali che regolano la divisione in caso di una esecuzione forzata su una quota su un bene immobile.

In prima battuta la Corte ricorda che la fattispecie totalmente atipica, ma esiste una norma espressa, l'art. 600 cpc ("Il giudice dell'esecuzione, su istanza del creditore pignorante o dei comproprietari e sentiti tutti gli interessati, provvede, quando e' possibile, alla separazione della quota in natura spettante al debitore. Se la separazione in natura non e' chiesta o non e' possibile, il giudice dispone che si proceda alla divisione a norma del codice civile, salvo che ritenga probabile la vendita della quota indivisa ad un prezzo pari o superiore al valore della stessa, determinato a norma dell'articolo 568") che regola la vicenda, in particolare si tratta di una norma nata dalla codificazione delle elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali sull'argomento. Come già detto, questo articolo fornisce alcuni elementi di base che possono essere utili per una ricostruzione unitaria dell’istituto, ricostruzione (ed è questa è la novità) che, secondo la Cassazione, è riferibile sia alle divisioni effettuate prima dell'introduzione dell'art. 600 cpc sia alle divisioni effettuate dopo l'introduzione dell'art. 600 cpc).

Un primo problema che si pone riguarda il fatto se la divisione derivante da un procedimento esecutivo è, a sua volta,  un procedimento ordinario (che segue le norme del processo di cognizione) o è un procedimento esecutivo (da intendersi come una mera fase del processo esecutivo e ne segue tutte le regole). Sul punto la Corte nota che ai sensi dell'art. 181 disp. att. cpc  ("il giudice dell'esecuzione, quando dispone che si proceda a divisione del bene indiviso, provvede all'istruzione della causa a norma degli articoli 175 e seguenti del codice, se gli interessati sono tutti presenti. Se gli interessati non sono tutti presenti, il giudice dell'esecuzione, con l'ordinanza di cui all'articolo 600, secondo comma, del codice, fissa l'udienza davanti a sè per la comparizione delle parti, concedendo termine alla parte più diligente fino a sessanta giorni prima per l'integrazione del contraddittorio mediante la notifica dell'ordinanza") il procedimento di esecuzione è affidato al giudice dell'esecuzione e sicuramente può dirsi che esiste un collegamento funzionale tra la divisione e il processo esecutivo, ma, questo non è un elemento sufficiente per sostenere che si è in presenza di una parte del procedimento esecutivo, poichè la norma va interpretata solo come regola per l'individuazione del giudice competente e non come una norma che individua il tipo di rito applicabile a questa divisione.  Dunque questo giudizio di divisione, resta un ordinario giudizio di cognizione, anche se si svolge dinanzi al medesimo giudice dell’esecuzione — in funzione, ovviamente, di giudice  istruttore civile della procedura esecutiva  contestualmente sospesa in attesa della liquidazione della quota del debitore esecutato.

La Corte conferma che la finalità della divisione endoesecutiva è quella di consentire di procedere esecutivamente su di un bene in proprietà esclusiva, questo tanto per la migliore appetibilità sul mercato di un bene in proprietà esclusiva rispetto ad una semplice quota, quanto  per la – intuitivamente – maggiore facilità con cui potrebbe svolgersi il processo esecutivo quando questo ha per oggetto beni fungibili come il denaro o in proprietà esclusiva.

Non si può nascondere che gli altri contitolari del bene si trovano a dover subire una divisione che potrebbero non volere e, per di più, una divisione iniziata da un creditore di uno dei comproprietari (di fatto un soggetto estraneo alla comunione) e non da uno degli altri comproprietari, ma la giustificazione di tale apparente disarmonia si può individuare considerando che il legislatore ha ritenuto prevalente l'interesse del creditore a recuperare il credito rispetto l'interesse degli altri contitolari del bene a non sciogliere la comunione o a far sciogliere la comunione solo su istanza degli altri comproprietari.

Questa riflessione permette di sottolineare un ulteriore aspetto della questione: l'eccezionale legittimazione del creditore a sciogliere la comunione formata tra terzi.   E' opportuno osservare che questa eccezionale legittimazione del creditore non è eterna e non è assoluta, anzi se viene meno la qualità di creditore in capo all’attore o la qualità di debitore in capo al convenuto principale la legittimazione del creditore manca e il procedimentio di divisione non può essere iniziato e, se iniziato, non può proseguire.

Da quanto detto  dalla Cass., civ. sez. III, del 18 aprile 2012 n. 6072 può desumersi la seguente massima

 "In conclusione, da un lato il giudizio di divisione  in esame costituisce una parentesi di cognizione nell’ambito del procedimento esecutivo, in quanto tale restando autonoma, perché soggettivamente ed oggettivamente distinta da questo, tanto da non poterne essere considerata né una continuazione, né una fase (Cass. 10 maggio 1982 n. 2889; Cass. 8 gennaio 1968 n. 44; Cass. 12  ottobre 1961 n. 2096; Cass. 24 febbraio 2011 n. 4499); dall’altro lato, la correlazione funzionale del giudizio di divisione endoesecutiva al processo esecutivo comporta che il creditore esecutante mantiene la sua legittimazione ad agire in divisione fintantoché in capo a lui permanga la qualità di creditore"

Un'altra interessante questione affrontata dalla Cassazione del 18 aprile 2012 n. 6072 riguarda la possibilità che durante la divisione il titolo esecutivo subisca delle variazioni. Per quanto può sembrare assurda come ipotesi si tratta di un caso non marginale,  infatti, non bisogna dimenticare che le sentenze di primo grado sono immediatamente esecutive, quindi, nulla esclude che ottenuta una sentenza esecutiva, nelle more del processo di appello, la si ponga in esecuzione e  prima della fine dell'esecuzione intervenga la sentenza di appello che modifica (in tutto o in parte) l'originaria sentenza di primo grado usata come titolo esecutivo.

Al fine di regolare quest'ulteriore problematica la Corte ha stabilito che il principio base da applicare è individuato nell'art. 653 cpc ("Se l'opposizione e' accolta solo in parte, il titolo esecutivo e' costituito esclusivamente dalla sentenza, ma gli atti di esecuzione gia' compiuti in base al decreto conservano i loro effetti nei limiti della somma o della quantita' ridotta") che, anche se si trattta di una norma che regola il decreto ingiuntivo,  rappresenterebbe l'applicazione di un principio generale valido per tutte le ipotesi in cui un provvedimento provvisoriamente esecutivo, posto in esecuzione, venga modificato solo quantitativamente da un successivo provvedimento anch’ esso esecutivo. In questi casi  il processo esecutivo non resta caducato, ma, in caso di modifica in diminuzione del provvedimento, il processo prosegue nei limiti fissati dal nuovo titolo e con persistente efficacia degli atti anteriormente compiuti, oppure nei limiti del titolo originario qualora la modifica sia in aumento, nel qual caso, per ampliare l’oggetto della procedura già intrapresa il creditore ha l’onere di dispiegare l'intervento, in base al nuovo titolo esecutivo costituito dalla sentenza di appello.

La soluzione non varia anche quando il titolo esecutivo è una ordinanza ex art.  24 legge 24 dicembre 1969 n. 990 (c.d. provvisionale). Questo perchè la natura dell’ordinanza ex legge 24 dicembre 1969 n. 990 è quella di un accertamento interinale con funzione esecutiva, che persegue lo scopo di soddisfare in via anticipata il diritto al risarcimento del danneggiato in tutti i casi in cui è stata accertata con sufficiente certezza la dinamica del fatto e quindi la responsabilità dello stesso, si sia in presenza o di un atteggiamento dilatorio della controparte.

Quindi, la sentenza di merito non elimina la provvisionale, ma la assorbe e la  sostituisce: in sostanza, alla condanna presente nella provvisionale subentra la condanna presente nella sentenza; ma, elemento molto importante, è che tale sostituzione od assorbimento ha efficacia ex tunc. Il principio è identico a quello già espresso in precedenza per le sentenze: l'effetto sostitutivo ex tunc della sentenza di secondo grado rispetto a quello di primo grado, non comporta l’eliminazione dal mondo del diritto delle statuizioni contenute nella sentenza di primo grado, ma determina la conferma delle stesse, che trovano però ora fonte nella successiva sentenza di appello e, in caso di mutamento solo quantitativo, solo con la modifica dell’entità del diritto effettivamente riconosciuto.

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Avvocato, Foro di Napoli, specializzazione Sspl conseguita presso l'Università “Federico II”; Mediatore professionista; Autore di numerose pubblicazioni in materia di diritti reali, obbligazioni, contratti, successioni. E' possibile contattarlo scrivendo a diritto@fanpage.it.
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