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Palmiro Togliatti: la doppiezza tagliente del comunismo italiano

A cinquant’anni dalla morte dell’indiscusso leader comunista emerge con chiarezza il profilo occidentalista della “via italiana al comunismo” che spingerà la classe operaia ad accettare le regole del gioco capitalista e a inseguire, unitamente al ceto medio, il sogno del benessere consumistico.
A cura di Marcello Ravveduto
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Dieci anni dopo la morte di Alcide De Gasperi anche Palmiro Togliatti, suo complementare avversario, spira mentre è in Unione sovietica a Yalta. Sul memoriale scritto in Crimea si è molto fantasticato, ipotizzando addirittura che al suo rientro in Italia il Migliore avrebbe potuto proporre un distacco dal Partito comunista sovietico, ben dieci anni prima dalla scelta compiuta da Berlinguer.

Un’ipotesi suggestiva ma priva di fondamento anche perché condita da innumerevoli “se” e numerosissimi “ma”. Una cosa è certa, Togliatti fino alla morte è stato il numero due del Comintern, ovvero l’assemblea internazionale che dettava, seguendo la regola del centralismo democratico, la linea politica dei Partiti comunisti nazionali. Anzi, la sua permanenza a Yalta, giustificata dal periodo di vacanza estiva, nasce proprio dalla necessità di discutere ai massimi vertici della spaccatura avvenuta a seguito delle posizioni eterodosse di Mao Tse Tung.

Del resto la cosiddetta “via italiana al comunismo” è già a quell’epoca un dato di fatto connaturato alla funzione del “partito nuovo”; ovvero sin dal febbraio 1944, quando, il compagno Ercoli, sbarcando a Napoli dopo il lungo esilio moscovita, spiega ai quadri, che hanno tenuto insieme l’organizzazione nella clandestinità, la strategia da attuare per l’avanzamento del Pci nella società italiana: ottenere un graduale spostamento della società verso le posizioni della classe operaia senza spaventare la borghesia.

Fin dalla “svolta di Salerno”, Togliatti dimostra di mettere al primo posto l’affermazione della democrazia nel paese del fascismo. Gli obiettivi indicati sono tre: governo di unità nazionale dei sei partiti aderenti al Comitato di liberazione nazionale (Dc, Pci, Psi, Pd’A, Pli e Democrazia del lavoro); lotta ai nazifascisti fino alla completa vittoria; rinvio della questione istituzionale (ovvero la scelta tra Monarchia e Repubblica) alla fine del conflitto.

Una magistrale opera di ricucitura di diversi punti di vista che serve a rasserenare il clima e a conquistare autorevolezza nel contesto istituzionale, presentando il Pci come una forza di governo in grado di accantonare momentaneamente l’ipotesi rivoluzionaria per il bene della nazione.

Altro esempio è il lavoro unitario nella fase costituente. Il Partito comunista accetterà di incorporare nella Costituzione i Patti lateranensi per non determinare uno strappo all’interno della coalizione antifascista ma anche per conquistare credito nei confronti dei cattolici progressisti. Alla fine la Carta sarà un unicum irripetibile dove si intrecciano e si armonizzano i diritti civili e le libertà democratiche che caratterizzano le tre grandi famiglie politiche dell’Italia postfascista: la cattolica, la liberale e la socialista.

Una strategia di accreditamento che rimane immutata anche di fronte al rischio della vita: il 14 luglio 1948, dopo che il Fronte popolare (la lista unitaria di Psi e Pci presentatasi alle elezioni dell’aprile precedente) è stato sonoramente sconfitto dalla Democrazia cristiana, Togliatti viene sparato all’uscita da Montecitorio dal giovane militante neofascista Antonio Pallante. Mentre il segretario è in sala operatoria in bilico tra la vita e la morte, le sezioni del partito si apprestano ad organizzare la lotta armata. Al risveglio dall’anestesia e fuori pericolo il Migliore invita alla calma e a riporre le armi perché la rivoluzione è ancora lontana. Il capo sa bene che la ribellione sarebbe mutata in un aborto di guerra civile (la cui colpa sarebbe stata attribuita unicamente al Pci) al termine della quale il partito sarebbe stato messo fuori legge, come era accaduto con il tentativo di colpo di stato comunista in Grecia. Un evento topico ricordato anche da Francesco De Gregori con la canzone “L’attentato a Togliatti”. Ci pensò, infine, Gino Bartali, con la vittoria del Tour de France, a stemperare definitivamente la tensione.

Si evince, nei vari passaggi politici, una distanza tra ciò che si dice e ciò che si deve fare. Con le parole si accende la miccia della rivolta contro il regime clerico fascista della Democrazia cristiana, nei fatti si lavora nelle commissioni parlamentari per modificare gli articoli delle leggi per impedire ai poteri forti del capitalismo di annullare le richieste di giustizia sociale. In fondo, il bicameralismo perfetto era stato voluto anche per bilanciare, con le lungaggini dell’iter parlamentare, il peso del Governo a cui rimaneva il potere di decretare monocraticamente in caso di emergenza.

Questa distanza è la cosiddetta doppiezza togliattiana: agitare in piazza la rivoluzione ma agire concretamente nelle istituzioni come forza di interdizione più che di opposizione. Col passare degli anni questa pratica è andata degenerando: nel periodo di Berlinguer prende la forma del consociativismo, durante la segreteria di Natta diventa imbalsamazione dell’esistente, nelle mani di Occhetto assume le sembianze del “non possumus”, con D’Alema muta in inciucio sino a diventare giustificazione della menzogna fine a se stessa da parte di un gruppo dirigente ormai scollegato dalla base. Il personalismo di Renzi non fa testo perché non appartiene al patrimonio genetico del comunismo italiano.

Dal mio punto di vista la summa della doppiezza togliattiana è nel messaggio pronunciato dal segretario durante la Tribuna elettorale del 1963. Con la caratteristica voce stridula, legge gli appunti che ha davanti e recita: «Il vero problema e che lo sviluppo economico è stato finora regolato essenzialmente dalla dura legge del profitto, nell’interesse del grande capitale e dei ceti privilegiati. Il popolo ha lavorato forte. Il ritmo del lavoro nelle officine è diventato così intenso che esaurisce un uomo nel corso di non molti anni. Ma è accaduto come per le api dell’amaro verso col quale Virgilio accusava i profittatori dell’opera sua. Ricordate?! “Voi fate il miele, o api, ma sono altri che lo godono”. Profitti di grandi capitalisti alle stelle… Il socialismo è la nostra meta, noi non lo nascondiamo. Vogliamo una società nuova, fondata sulla fine dello sfruttamento, sulla solidarietà e fraternità di tutti gli uomini, sulla loro eguaglianza sociale, sull’accesso di tutti al benessere, alla cultura, alla gestione economica e politica del potere e sulla pace. Per questa lavoriamo e combattiamo ed oggi, per la nostra Patria, ciò che vogliamo è la svolta a sinistra per un’avanzata democratica secondo le linee previste dalla Costituzione, secondo i principi che essa sancisce e che aprono al popolo italiano la speranza, ove siano applicati, di un luminoso avvenire di progresso, di libertà e di felicità».

Al di là della colta citazione classica, tipica del linguaggio dotto e mai anodino dei dirigenti comunisti, Togliatti considera il Miracolo economico come il frutto di uno sviluppo che disconosce l’impegno della classe operaia. I lavoratori faticano e gli industriali godono dei profitti senza aumentare i salari. Il Socialismo è la meta esplicitamente dichiarata, senza inganni, perché la via italiana al comunismo è eretta sui valori della solidarietà, della fraternità, dell’uguaglianza, della partecipazione popolare e della pace. Togliatti sta attento a non mettere in fila tra le virtù del Pci gli ideali rivoluzionari francesi Liberté, Égalité, Fraternité perché in essi si riconosco i partiti della sinistra democratica, laica e radicale.

Usa inoltre la parola patria, e non Italia o nazione, per richiamare alla memoria il mito della Resistenza come secondo Risorgimento. Prima di concludere gioca il suo asso: i comunisti sono favorevoli all’apertura a sinistra nel solco della Costituzione. L’asserzione può avere un duplice significato: piena attuazione degli articoli costituzionali (regioni, referendum, diritto del lavoro); oppure rispristino del clima costituente, con una collaborazione programmatica, pur da posizioni diverse, tra i tre principali partiti di massa (Dc, Pci, Psi) che hanno dato vita alla Repubblica.

Ci sono, tuttavia, due note “stonate” all’interno del discorso: «accesso di tutti al benessere» e «avvenire di felicità». Due termini profondamente radicati nella cultura occidentale che si oppone al blocco sovietico. Infatti, la felicità del socialismo reale ha un valore diverso da quella atlantica: il benessere si raggiunge attraverso la collettivizzazione dei mezzi di produzione, la pianificazione pluriennale dell’economia, la nazionalizzazione dei servizi pubblici e la diffusione dei consumi primari. È lo Stato a determinare il grado di felicità collettiva, non il capitalismo e il conseguente comunismo.

Togliatti sa benissimo di parlare ad un corpo elettorale che non vuole rinunciare alla ricchezza conquistata con l’american way of life. Al massimo si potrebbe dire che la sua concezione di felicità sia legata all’ottenimento del benessere collettivo in una società individualista. In ogni caso i due termini utilizzati rappresentano in maniera lampante la diversità, o meglio l’occidentalismo, del comunismo italiano. Questo discorso è una segnale importante per comprendere quanto il “virus” individualista del neocapitalismo sia divenuto parte integrante dell’agire concreto del Pci nella società italiana. La classe operaia, spinta dal suo stesso leader alla ricerca della felicità e del benessere, subirà una mutazione genetica che la porterà a lasciare la cittadella proletaria per unirsi agli “appestati” del ceto medio. Togliatti non poteva immaginarlo, ma l’utilizzo di quelle due parole sono la spia di una patologia pronta ad esplodere.

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