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Alcide De Gasperi: la politica come missione

Sono passati sessant’anni dalla morte del primo Presidente del Consiglio dell’Italia repubblicana e, nonostante l’immagine agiografica tracciata dalla retorica nazionale, rimane un esempio insuperabile di leader democratico, avversario dell’assolutismo totalitario e rispettoso delle minoranze etniche e politiche.
A cura di Marcello Ravveduto
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Per chi, come me, è nato negli anni Settanta la figura di Alcide De Gasperi è una specie di totem mitico intorno al quale prende corpo la fondazione della Repubblica. Un uomo mite, equilibrato, la persona giusta al posto giusto nel momento esatto: il nocchiere del passaggio dal regime fascista alla democrazia repubblicana. Pacato nei gesti, misurato nell’eloquio, attento nei comportamenti. Questa è l’immagine che deriva dall’analisi delle videocronache realizzate dalla Settimana Incom e conservate dall’Archivio storico dell’Istituto Luce.

https://www.youtube.com/watch?v=psweh8ETMP8

De Gasperi ha lo stile del galantuomo ottocentesco sopravvissuto all’avvento della massificazione politica imposta dai regimi totalitari. Nasce in Trentino, a Pieve Tesino (provincia di Trento) nel 1881, quando ancora la regione è parte integrante dell’Impero Austro-Ungarico. A differenza degli altri padri fondatori della Repubblica ha vissuto sulla sua pelle, negli anni della gioventù, la discriminazione delle minoranze etniche.

Per quanto la vulgata storica lo rappresenti come un buono, immediatamente mostra le sue capacità di leader cattolico intransigente:  capofila del movimento studentesco Cristiano-sociale e protagonista delle lotte degli studenti trentini mira a ottenere un'università in lingua italiana per le minoranze italofone del Tirolo e dell'impero. Dopo la rivolta degli studenti di lingua tedesca, deve scontare, per le sua militanza, qualche giorno di reclusione a Innsbruck. È questa esperienza di contrasto all’assolutismo asburgico che, con ogni probabilità, gli darò la forza, in seguito, di resistere alla protervia del fascismo.

Nonostante la carcerazione per motivi politici non arretra nella sua battaglia, anzi si espone pubblicamente candidandosi nel 1911 nella fila del Partito Popolare. Eletto deputato del Parlamento austriaco continua il suo impegno a favore delle popolazioni trentine di origine italiana, un’attività tenacemente avversata dalla polizia austriaca soprattutto dopo l’attentato di Sarajevo.

Quando la sua regione diventa italiana è del tutto naturale la sua adesione al Partito Popolare fondato da don Luigi Sturzo nel 1919. Dopo due anni, terminata la fase commissariale di passaggio del Trentino dall’Austria all’Italia, è eletto alla Camera dei deputati a Roma. In un primo momento ha un atteggiamento accondiscendente (come la maggior parte dei cattolici) verso il fascismo, soprattutto nella fase dei governi a matrice liberale (1922-1924); ma, in seguito, con la proclamazione della dittatura la sua posizione cambia anche perché improvvisamente investito di una grave responsabilità: a causa dell’esilio forzato di don Sturzo (dopo un breve triumvirato di Rodinò, Gronchi e Spataro) assume la carica di segretario del Partito Popolare.

Un incarico simbolico visto che, da lì a breve, Mussolini avrebbe messo fuori legge tutti i partiti imponendo il Pnf (Partito nazionale fascista) quale unico soggetto delegato a rappresentare la politica italiana. Nel 1927 subisce l’onta dell’arresto mentre è in partenza con la moglie dalla stazione di Firenze. Condannato a 4 anni di reclusione, viene scarcerato l’anno successivo e dopo la firma dei Patti lateranensi riesce ad essere assunto, come collaboratore, alla Biblioteca Apostolica Vaticana, sfuggendo all’asfissiante controllo di polizia a cui lo ha sottoposto il regime.

Sono anni di studio e di approfondimento che lo aiutano a riflettere e a elaborare l’equidistanza del partito cattolico dal comunismo e dal fascismo. Dopo un lungo silenzio riemerge con autorevolezza tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943, quando ormai è chiaro che le sorti dell’Italia in guerra siano segnate dalla sconfitta. Insieme ad alcuni vecchi popolari e a giovani cresciuti nelle file dell’Azione cattolica sottoscrive il documento su “Le idee ricostruttive della Democrazia Cristiana”, atto di nascita del nuovo partito cattolico il cui impianto ideologico si rifà alla dottrina sociale della Chiesa.

Come segretario della Democrazia Cristiana entra a far parte del Comitato di liberazione nazionale e dopo lo sbarco a Salerno degli angloamericani è ministro dei governi dell’Italia liberata, il Regno del Sud. Poi, dopo la Liberazione, dal dicembre del 1945 all’agosto del 1953 (un anno prima della sua morte) è ininterrottamente Presidente del Consiglio (nessuno, fino ad ora, ha mai eguagliato questo record di permanenza e stabilità governativa).

Con la schiacciante vittoria della Democrazia cristiana nelle elezioni del 1948 (che sanciscono la piena adesione dell’Italia alla sfera di influenza statunitense) si apre la stagione del Centrismo, una grande operazione di equilibrismo grazie alla quale il partito cattolico diventa la stella polare della politica nazionale: la Dc è il sole introno al quale ruotano i partiti alleati che vivono di luce riflessa.

Qual è l’intuizione storica di De Gasperi? L’Italia è una nazione politicamente centripeta. Il centro è un luogo strategico da cui è possibile controllare i movimenti di alleati ed avversari. Dal centro si possono tessere relazioni verso la destra e la sinistra, ma anche verso l’alto e il basso (sindacati, impresa, poteri forti, contesti innovativi, ecc…). Il centro è la sede del Governo e, quindi, la metafora di una Repubblica fondata sul possibilismo moderato.

De Gasperi forgia il modello del partito nazionale interclassista che, più di ogni altro soggetto politico, ha interpretato il paradigma assorbente della cetomedizzazione di massa, come spesso ricorda Giuseppe De Rita, fondatore del Censis. Se guardate all’attuale maggioranza riformatrice noterete che la grande coalizione si regge su un principio di ricomposizione che a molti sfugge. Il centro (identificabile nell’ultimo decennio della prima Repubblica con il pentapartito), spaccato da eventi esterni alla politica (le inchieste giudiziarie), si è ritrovato diviso tra destra e sinistra. Democristiani, socialisti e laici sparsi si sono aggirati tra i due schieramenti opposti senza perdere il loro ancoraggio centrista (un esempio per tutti: la famiglia Letta). Per questo molti di loro sono riusciti a saltare da una coalizione all’altra senza danni: sia a destra, sia a sinistra rimangono inossidabili uomini e donne del centro. L’aver separato l’unità in due parti non ha annullato la forza magnetica del centro.

Tenendo insieme continuismo e innovazione l’uomo venuto dal Nord costruisce pazientemente la trama democratica tenendola al riparo dalle nostalgie neofasciste e dalle aspirazioni rivoluzionarie dei comunisti. Una scelta che rimane immutabile almeno fino agli anni Sessanta e che supera indenne la prova della Guerra fredda e delle lotte sociali di una nazione rurale rapidamente avviata sulla strada del Miracolo economico. Senza le politiche di liberismo commerciale e di sostegno all’impresa pubblica, di solidarietà europea e di salvaguardia dell’Alleanza atlantica, di assistenza sociale e di sviluppo industriale, di difesa delle minoranze e di legittimazione della maggioranza di governo, l’Italia non sarebbe mai diventata un interlocutore credibile nel contesto globale.

Mantenere saldamente ferma la barra al centro ha consentito a De Gasperi di evitare che la Repubblica fosse solo un’utopia di intellettuali progressisti, che comunisti e neofascisti fossero messi fuorilegge, che la destra clericale prendesse il sopravvento sulle aspirazioni riformatrici della sinistra cattolica e dei partiti laici, che la Guerra fredda si tramutasse in guerra civile, che le ragioni del capitalismo annichilissero gli ideali della giustizia sociale.

L’uomo dal volto triste e dal naso aquilino, come mostrano le immagini dell’Istituto Luce, gira in lungo e in largo portando conforto agli italiani affranti dalla sconfitta, dalla povertà e dalla fame. Con il suo cappello a falde larghe e l’inseparabile impermeabile partecipa, senza mai lamentare lo stress della fatica (stiamo parlando di uomo che ha oltre sessant’anni), alle innumerevoli inaugurazioni che segnano la Ricostruzione del Paese.

Certo, c’è molta agiografia intorno alle “gesta” del capitano, ma il suo eroismo non è un invenzione mediatica in quanto il suo agire è dettato da uno stile etico, ormai scomparso, che interpreta la politica come una delle più alte forme di carità cristiana. Non fu solo in quest’opera immane, eppure non bisogna mai dimenticare che se avesse ceduto alle pressioni del Vaticano, degli americani e degli industriali e non avesse avuto una sacro rispetto per gli avversari politici l’Italia non sarebbe mai riuscita ad attraccare nel sicuro porto della Democrazia.

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