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La legittima difesa di Pinuccio Sciola: l’uomo che proteggeva la sua gente con la bellezza

Giuseppe Sciola, detto Pinuccio, è l’uomo che ha trovato il modo di far cantare le pietre con una carezza, tenne la sua casa aperta per 40 anni, durante i quali chiunque poté entrare e pochi se ne approfittarono, se non per rubare bellezza. Storia di un uomo che cambiò il suo paese, San Sperate in Sardegna.
A cura di Andrea Melis
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Altro che legittima difesa e licenza di uccidere. Quella di Giuseppe Sciola, noto Pinuccio, è una storia esemplare. Nato dal fango di un campo di agricoltori, in un Paese contadino brutto di mattoni di fango e strade di polvere, ha speso tutta la sua esistenza per dimostrare che l'impossibile è possibile: fare della bellezza l'unica arma capace di salvare il mondo. Con cui ha cambiato la storia del suo paese, San Sperate, in Sardegna, e non solo. È morto troppo presto il 13 maggio del 2016. E solo da quel giorno la sua casa, che ospita migliaia di opere d'arte, ha avuto il portone chiuso.

Ed ecco la storia. Un portone tutto sommato inutile, se non per indicare il lutto. E che ci si augura presto venga dischiuso. Considerato che per i 40 anni precedenti la casa dell'artista era sempre aperta: porte spalancate, anche in sua assenza. Tavoli pieni di libri, arte, dipinti, bozzetti. Una grande casa con immenso cortile pieno di sue opere scultoree, lignee, pittoriche uniche al mondo e di valore inestimabile. E in cucina sempre un po' di frutta di stagione sul tavolo e una bottiglia di vino ad accogliere il viandante.

Fosse un capo di Stato (nel 2012 Sciola è stato insignito dal Presidente Napolitano commendatore della Repubblica, e fu l'unica volta che indossò una giacca con cravatta), o un curioso sconosciuto, la musica classica e le porte aperte accoglievano chiunque. Pur restando un contadino che camminava scalzo e in maniche di camicia, e anche quando le sue pietre che suonano lo hanno reso famosi in tutto il mondo, la sua casa restava aperta. Sia per i premi Nobel come Dario Fo o Oscar come Roberto Benigni, che cultori della bellezza come Renzo Piano, Moni Ovadia, Gillo Dorfles, che musicisti di fama internazionale.

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L'elenco potrebbe continuare ma non è questa la storia che conta oggi. In un'epoca di muri nati per dividere e di armi sdoganate per sbarrare porte, l'eredità di questo artista va molto oltre le migliaia di opere enormi che ha lasciato (quello che ha lasciato Sciola, dice Moni Ovadia, normalmente non lo lascia un uomo ma una civiltà intera), va oltre la follia di aver saputo liberare il suono dalla pietra, sorda per antonomasia, e non percuotendola come tutti, ma con una carezza. Va oltre l'aver dimostrato l'elasticità e la memoria della pietra, dura e stupida per antonomasia, lasciando un giardino a San Sperate con oltre 500 sculture a cielo aperto.

Il suo insegnamento è piuttosto in una frase: la bellezza di ieri non vale quella di domani. Per dire che il mondo è un posto che può essere salvato solo dalla bellezza. La sua vita lo testimonia. Scoperto per caso mentre giocava col fango da alcuni professori d'arte della sua città, fu convinto a studiare grazie a una borsa di studio.

E oltre a studiare, a Firenze e poi a Salisburgo dove fu allievo di Minguzzi, Kokoschka, Vedova e Marcuse, decise di viaggiare. Prima tutta Europa, dove conobbe e frequentò artisti del calibro di Giacomo Manzù, Fritz Wotruba, Aligi Sassu e Henry Moore.Poi in tutto il mondo, condividendo l'arte del muralismo in Messico esponendo con maestri come David Alfaro Siqueiros (che combatté la Guerra di Spagna contro Franco e la leggenda narra essere stato tra gli attentatori di Trockij) sino ad esporre alla Biennale di Venezia, per poi diventare l'unico al mondo a riempire con i suoi enormi Semi della Pace l'intera spianata della Basilica Superiore di Assisi. Sciola ebbe l'onore di suonare anche sulla tomba di Michelangelo Buonarroti, a Santa Croce di Firenze, e pochi giorni prima di morire ripeté la magia in San Pietro in Vincoli, davanti a quel Mosè di tale perfezione per cui si narra che il suo geniale autore si disperasse chiedendogli "Perchè non parli?. Quel quesito fu sciolto da Sciola che suonò le sue pietre e dialogò fuori dal tempo con Michelangelo rispondendogli mezzo millennio dopo: la pietra non parla perché canta.

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A chi gli chiedesse quando avesse iniziato a scolpire rispondeva: tu quando hai conosciuto tua madre? A chi gli chiedesse come avesse fatto a scoprire che le pietre conservano la memoria sonora dell'universo, vibrando alla stessa frequenza della radiazione cosmica di fondo del Big Bang (fatto certificato da studi sulle sue opere condotte dal Politecnico di Torino e perfino dalla Nasa) lui rispondeva semplicemente: il mio tempo non ha tempo.

Io potei entrare decine di volte a casa sua. Questa fu la mia fortuna. Ascoltare la musica classica, gironzolare tra quei tavoli, addentare una pesca o un'arancia. Sopraffatto da tanta bellezza a nessuno sarebbe mai venuto in mente di toccare nulla. Ci si muoveva in religioso silenzio. E quando Pinuccio tornava, il che poteva succedere dopo pochi minuti o molte ore, non ti chiedeva manco chi fossi.

Ti raccontava generosamente cosa facesse, e ti invitava alla sua tavola. Dove non mancavano mai dei ravioli di ricotta al sugo e qualche fetta di formaggio e salame. Ce lo ha portato via un tumore troppo presto. Un tumore che aveva vinto cinque anni prima, ma poi è tornato inesorabile.

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Ma con la sua morte, tutti hanno capito quale sia stata la sua opera più grande: lasciare una comunità che non ha eguali al mondo. Un intero Paese Museo, quello di San Sperate.
Perché la bellezza è contagiosa, e Pinuccio Sciola ebbe il grande merito non solo di lasciare casa sua aperta, ma di fare aprire le case a tutti quanti. Eredità che oggi proseguono i figli con la Fondazione che porta il suo nome, e l'intero paese tutto insieme.

Dopo aver vissuto il fermento del '68 a Parigi, Sciola infatti tornò nel suo piccolo paesello di cinquemila anime. E lo vide terribilmente povero, buio, brutto del marrone dei suoi muri di fango e delle sue strade polverose. In una sola notte convinse gli amici d'infanzia a fare una follia. L'indomani ci sarebbe stata la processione del Corpus Domini. Affrescarono di bianco l'intero percorso che avrebbe accolto i paesani. Calce candida che brillava al sole. E sopra murales: dipinti, colori. E in terra "sa ramadura": un tappeto di fiori e menta colti al fiume. Un intero paese andò a dormire brutto e si svegliò in un'abbacinante bellezza.

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Da allora l'opera di Sciola non si è più fermata: il paese di San Sperate oggi si ripopola e sfiora i diecimila abitanti. Molti, come me, pur non essendoci nati lo scelgono per la sua bellezza: a oggi fatta di migliaia di opere d'arte a cielo aperto. Murales, ma anche foto, strade e fiumi colorati, persino i cartelli stradali sono opere d'arte che la popolazione spontaneamente cura, dipinge, abbellisce.

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I muri di San Sperate non servono a difendere le persone e le cose, ma la bellezza: sono diventati delle grandi e accoglienti tele dove artisti di tutto il mondo dipingono messaggi di pace e accoglienza. Le porte a San Sperate non sono mai chiuse. C'è sempre una vecchina che vende frutta sulla soglia, o uno scranno su cui salutare e chiacchierare con chi passa. A San Sperate si gira in bicicletta. E persino in questi tempi difficili, i più giovani delle scuole vengono ogni anno coinvolti in progetti d'arte dalle numerose associazioni del Paese, che vanta oltre 4 festival culturali all'anno.

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In una piazza di un paese senza mare, infatti, non a caso c'è una barca: uno dei primi barchini con cui giunsero dei migranti dalla Tunisia sulle coste sarde. Ed è raro, davvero molto raro, che qualcuno commetta degli atti vandalici, rovinando opere d'arte o sporcando i murales. E quando accade la condanna della comunità è unanime. E capita che persino il Sindaco voglia incontrare per capire. Mai per punire o reprimere.

Intervistato da una Tv una volta un ragazzino disse: ma in fondo perchè dovrei pasticciare questi disegni e queste sculture? Sono mie! Tutto il Paese è mio. Ecco la rivoluzione che ci ha lasciato Pinuccio Sciola: la bellezza è di tutti. Ben venga chi la sappia "rubare" per farla propria.

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Andrea Melis (Cagliari, 1979), grafico, videomaker e scrittore, ha pubblicato articoli di cultura, interviste, inchieste e racconti per riviste e quotidiani nazionali e stranieri. Tra i membri fondatori del Collettivo Sabot, ha firmato romanzi insieme ad autori come Massimo Carlotto e Francesco Abate, tra cui Perdas de Fogu (E/O, 2008). La sua prima opera in poesia, #Bisogni, una selezione di versi autoprodotta in mille copie grazie a una campagna di crowdfunding, è andata esaurita in poco più di un mese. Il suo ultimo libro è edito da Feltrinelli, Piccole tracce di vita. Poesie urgenti (2018). Collabora come autore di testi con artisti, illustratori, fotografi, musicisti e compagnie teatrali di tutta Italia. Scrive editoriali poetici per FanPage.it
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