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Troy Deeney racconta l’inferno degli abusi: “Ucciderò tua madre e poi te e i tuoi fratelli”

L’ex capitano del Watford è passato in estate al Birmingham, la città in cui ha avuto un’infanzia difficile e squadra del cuore del suo padre adottivo a cui ha dedicato la nuova maglia. Un uomo che minacciava di morte lui e la sua famiglia, che picchiava la madre e rendeva partecipe il figlio dei suoi sequestri di persona.
A cura di Andrea Lucia
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A 33 anni Troy Deeney – une leggenda coi colori del Watford – ha deciso di raccontare la sua storia, un'infanzia difficile fatta di abusi e minacce da parte del padre adottivo ma anche di emancipazione e riscatto. Anzi, di redenzione, come recita il titolo della sua autobiografia "Redemption" che in Inghilterra sta già avendo molto successo. L'educazione violenta ricevuta lo ha portato a ricordare il giorno in cui ha viaggiato su un auto rubata con uno spacciatore rinchiuso nel bagagliaio o di quando era costretto a vedere i maltrattamenti che subivano i suoi fratelli più piccoli e sua madre Emma, "la persona più forte che conosca". In estate il destino ha voluto che vestisse la maglia del Birmingham, la città in cui è cresciuto e non a caso la squadra del cuore di suo padre: "Il calcio è il mio alter ego: mi permette di essere voluto e accettato, quando l'insicurezza di non essere abbastanza bravo e di non essere voluto deriva dall'abbandono del mio padre biologico". Ecco perchè Deeney ha sempre amato Paul Anthony Burke, l'uomo che lo ha adottato e che continua a chiamare papà anche se lo picchiava.

"Ucciderò tua madre, poi ucciderò te e te e te", indicando i fratelli minori Ellis e Sasha. È questo uno dei passaggi più forti del libro di Deeney, che si apre descrivendo un padre fuori controllo che ha scontato una condanna per diversi reati e che quando è tornato a casa – dopo quello che Deeney pensava essere un viaggio di lavoro – minacciava quotidianamente tutta la sua famiglia. Paul Anthony Burke (considerava un segno di rispetto essere chiamato con il suo nome completo) era un uomo violento, a cui piaceva intimidire le persone, fisicamente e psicologicamente: "Alcuni dei suoi amici hanno guadagnato tanti soldi con il crimine, ma lui non li ha mai voluti. Gli piaceva solo essere rispettato, godeva quando entrava in un pub e la gente faceva la fila per offrirgli da bere o esclamava «F*ck, c'è Burkey»".

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Deeney era 19enne e aveva appena iniziato la sua carriera calcistica quando visse uno dei momenti che lo hanno segnato forse più di tutti: "Mio padre era venuto a prendermi da una partita in trasferta a Northampton con una Mercedes blu. Sapevo che non possedeva una macchina ma soprattutto che non aveva neppure superato l'esame della patente. In ogni caso sono salito e lui teneva la musica ad alto volume. Ci siamo fermati in una stazione di servizio per fare benzina e quando il motore si è spento ho sentito strani rumori provenire dal bagagliaio. Mio padre mi disse che c'era ragazzo rinchiuso lì dentro, uno spacciatore della nostra tenuta che doveva dei soldi a un suo amico. Ero inorridito ma mio padre mi rassicurò dicendo che l'aveva nutrito e stava bene, che l'avrebbe liberato così da obbligarlo a saldare il debito".

La madre di Deeney, Emma, decise di lasciarlo ed era talmente spaventata da non rivelargli l'indirizzo della casa in cui avrebbe vissuto con i suoi figli. Un giorno Burke li trovò che giocavano a casa di un amico e li costrinse a mostrargli dove abitavano. "Mamma ha aperto la porta abbastanza casualmente, poi ho visto la sua espressione trasformarsi in terrore: non dimenticherò mai quello sguardo. Mio padre ha iniziato a tirarle pugni, io sono intervenuto e ho cercato di mettermi in mezzo a loro. Gli ho detto di calmarsi ma era fuori controllo. Un mio amico ha bussato alla porta per chiedermi se sarei uscito a giocare ma ha visto la situazione e lanciato l'allarme. La polizia è arrivata e ha sfondato la porta d'ingresso prima di arrestarlo".

Paul Anthony Burke non era il padre biologico di Deeney e morì nell'estate del 2012 di cancro esofageo. Durante il funerale, in una scena surreale, il calciatore ricorda di aver riconosciuto il suo papà biologico intento ad organizzare i canti per il rito funebre. Era lì in quanto amico del fratello più giovane di Burke: "Era l'ultima fottuta persona che volevo vedere ma dal momento che mia madre non faceva storie, sono rimasto zitto". Ha abbandonato lui e i suoi fratelli quando erano appena nati e da allora non ha mai mostrato interesse per loro, ecco perchè nel libro lo considera semplicemente un "donatore di sperma". Quel rifiuto e l'idea che il suo padre biologico non lo volesse spiega non solo perché ha passato la vita a cercare di adattarsi, ma anche perché è rimasto vicino a Burke, la figura paterna che lo ha sostituto e che amava nonostante lo picchiasse.

Paul Anthony Burke era un membro dello Zulus, la società di hooligan di Birmingham City, e portava Deeney alle partite casalinghe meno ostili allo stadio "St Andrew's". Deeney ha lo stemma della squadra tatuato sulla gamba e quando è arrivato in estate a parametro zero dopo 11 anni al Watford e oltre oltre 600 partite in carriera, ha pubblicato un post su Instagram che recitava "Ce l'abbiamo fatta, papà. Questo è per te" con un cuore spezzato e uno intero. "Tutti lo avrebbero invidiato parlando di suo figlio che giocava per il Blues. Non è stato un padre modello, ma sono sicuro che è ancora qui e spesso mi protegge".

Fu proprio a Birmingham, durante il periodo più buio della sua vita nell'estate del 2012 alla morte di Burke, che Deeney capì di dover cambiare. Era stato appena in carcere per 10 mesi dopo aver partecipato ad una rissa e lì iniziò la sua maturazione: ha iniziato a leggere di più, l'opinione pubblica lo considerava un calciatore moderno, è entrato in terapia che ancora prosegue per superare i traumi dell'infanzia, è stato celebrato per i suoi 200 gol in carriera ed è diventato anche una delle voci più autorevoli del movimento che sta combattendo il razzismo nel calcio. Cominciò a capire perché si era comportato così e perchè il calcio lo aveva salvato: "Il football mi ha permesso di togliere la maschera di problemi che avevo vissuto".

La sua consapevolezza riguarda anche il legame mai avuto e che mai avrà con suo padre biologico: "Se dovessi venire a sapere che è morto, non avrei alcun senso di colpa. Mi dispiacerebbe solo per la sua famiglia, ma non puoi rimpiangere quello che non hai mai avuto". Dice di essere ancora arrabbiato per le opportunità perse con lui e non si capacita di come un genitore possa non voler mai più vedere il proprio figlio. "Mia madre mi ha chiesto più e più volte se volevo mettermi in contatto con lui, ma non lo faccio. Non abbiamo bisogno di parlare. Sono in pace con me stesso. Penso solo a quanto era pazza la vita che facevo. Adesso vado a lavorare, porto a spasso il cane e gioco con i miei bambini. È una vita normale, ad essere strana era la vita che facevo prima".

La ragione per cui ha scritto questo libro è dare un senso al suo passato e sperare di innescare un dibattito aiutando le tante persone vittime di violenza domestica: "Sono stato commosso da quante persone hanno già detto di amare il mio libro e spero che alcuni troveranno forza nel leggerlo. So che la violenza domestica in questo paese è aumentata del 68% durante il Covid, quindi potrebbero esserci persone e famiglie in difficoltà che non ne parlano. Spero che la storia di chi ha vissuto le loro stesse situazioni possa essergli d'aiuto". Deeney dice di non essere una persona speciale, ma sono qualcuno che non si è mai arreso e che vuole dimostrare che dai momenti difficili si può uscire fuori.

All'incontro dello scorso anno tra i capitani dei club della Premier League, mentre discutevano su come riprendere il calcio dopo il primo lockdown, la discriminazione razziale era il quinto e ultimo punto all'ordine del giorno. Nella riunione organizzata su Zoom il tema del razzismo non sarebbe stato discusso in alcun modo. Fu Deeney, in qualità di capitano del Watford, a parlare e a spingere i giocatori a mettersi in ginocchio prima del fischio d'inizio, oltre ad indossare lo slogan Black Lives Matter sulle loro magliette. "L'ho chiamato uno sfogo, ma in realtà è stata una discussione articolata perché dovevamo fare qualcosa".

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