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Pioli is on fire, il trionfo di un allenatore che per vincere non ha avuto bisogno del Piolismo

Stefano Pioli è un allenatore che non avrà ma un suffisso “-ismo” a contraddistinguerlo, ma non per questo non è un esempio da seguire. La sapienza da maestro nella gestione e le idee chiare da un punto di vista tattico ne hanno fatto il miglior allenatore della serie A.
A cura di Jvan Sica
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La sfida al vertice del campionato italiano si è giocata tra due allenatori che non hanno, non aspirano e non avranno mai il suffisso “-ismo” alla fine del loro cognome e se questa non è una rivoluzione, è almeno una grande novità. Dopo anni in cui hanno dominato il sarrismo, l’allegrismo e il contismo, con il suffisso che indica una filosofia molto specifica che va dalle idee del gioco alla gestione della rosa, finanche alla gestione atletica dei calciatori, Simone Inzaghi e Stefano Pioli hanno pensato di prendere ispirazione da tutti, si sono sfidati cambiando e adattandosi e il rossonero ha vinto grazie a una serie di competenze assolute che pochi pensavano avesse.

Quando Pioli arriva a Milano, sponda rossonera, il 9 ottobre 2019, sembra essere la classica soluzione tampone prima e dopo una grande idea. La prima era stata o, meglio, doveva essere quella di Marco Giampaolo, naufragata molto presto dopo 4 sconfitte in campionato in 7 partite. La successiva doveva essere quella dell’allenatore-manager-direttore sportivo-factotum che rispondeva alla figura di Ralf Rangnick, l’uomo nuovo che le alte sfere rossonere in un determinato momento della parabola di risalita del club avevano scelto per costruire un triennio di rinnovamento e poi lanciarsi decisi sul mercato alla ricerca del miglior compratore. In questa fase ha retto soprattutto il duo Maldini-Massara, da una parte perché sarebbero stati praticamente esautorati dal manager tedesco e poi perché avevano capito che Pioli stava costruendo un Milan che poteva pensare di lottare per il titolo.

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Siamo onesti, erano forse solo loro due ad aver capito e a sperarci, basti pensare che Rangnick era davvero a un passo dal Milan. Bastava un Maldini anche leggermente accondiscendente e Pioli non c’era più. Con la rinnovata fiducia di chi ci ha messo la faccia e l’energia per tenere Pioli e voler provare a vincere con lui, l’allenatore ha semplicemente deciso di fare il meglio con quello che aveva, venendo accontentato sul mercato con calciatori di secondo piano al momento del loro acquisto.Chi mai avrebbe immaginato che Tomori potesse diventare il miglior difensore della serie A, oppure che Mike Maignan facesse dimenticare in tre settimane il miglior portiere degli Europei, Gigio Donnarumma, o anche che Sandro Tonali, da bella favoletta della buona notte per il suo amore rossonero, diventasse uno dei migliori centrocampisti in Italia e prossimo punto fermo della Nazionale di Mancini? Partendo dalla fiducia rinnovata della società, Pioli ha saputo trovare una grinta nuova trasmessa alla squadra che ha iniziato a crederci e a provarci davvero.

Mai un parola detta a voce troppo alta, mai un momento di sconforto, mai una frase che creasse confusione, mai una parola contro i suoi ragazzi. Si parla tanto di gestori di uomini, sbagliando pedagogicamente il mirino. Spesso le squadre hanno bisogno di un gestore di ragazzi, perché tali sono i calciatori di una rosa, e come tale Pioli si è saputo comportare, punendo e gratificando, sottolineando prestazioni o nascondendone lacune, preservando sempre un calciatore nel suo momento no e non esponendolo mai fuori dal gruppo ristretto. Ha vinto forse il miglior maestro della Serie A (un po’ come maestro è stato anche Mancini la scorsa estate) e questo deve far riflettere, soprattutto a chi si scanna sull’altare ideologico del giochismo vs risultatismo.

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Se i giovani lo hanno seguito dal primo istante, anche i pochi uomini di esperienza hanno saputo fare fronte comune con lui. Ibrahimovic, Florenzi, Giroud hanno saputo solo sostenere gli altri, anche nei momenti in cui hanno giocato poco e male. Questa è un’altra vittoria di Pioli: trovarsi degli alleati ascoltati è la prima mossa da fare quando bisogna definire una strategia comune.

Infine il campo. Ha deciso fin dall’inizio che uno dei suoi punti di forza, i laterali bassi, dovevano giocare praticamente a tutto campo e così ha fatto sempre, senza però scoprirsi. Calabria da una parte e soprattutto Theo Hernandez dall’altra hanno letteralmente dominato le zone esterne del campo, venendo sempre coperti non solo dai due centrali, quasi sempre Tomori e Kalulu, rapidi e pieni di forza, ma anche dai centrocampisti centrali, con Tonali e Kessie capaci di un lavoro sfiancante ma determinante. In attacco non c’era l’uomo dalla lampadina accesa e Pioli si è affidato a tanti calciatori per innestare fantasia nel telaio (Messias, Brahim Diaz, Alexis Saelemaekers, anche momenti con Daniel Maldini), poi è arrivato alla maturazione improvvisa Rafael Leão e gli ha lasciato spazio di manovra. Ha sempre fatto giocare il Milan con idee chiarissime, stabilendo che la spina dorsale della squadra (Maignan, Tomori, Tonali, Giroud) doveva essere intoccabile e dare solidità, poi lasciando che i talenti giovani a disposizione vivessero in campo il loro massimo momento di forma.

Un allenatore che sa adattarsi, conosce i suoi calciatori e capisce quando è il momento giusto di usarli, uno che non fa manifesti d’intenti e tirate ideologiche in tv oggi ci sembra un allenatore in minore. Ma se Pioli ha vinto (con Inzaghi, stessa pasta, arrivato secondo), allora qualche domanda dobbiamo iniziare a farcela.

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