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Edoardo Leo: “In passato sui set mi sentivo un intruso. Ero un rompiscatole, ora pratico la gentilezza”

Edoardo Leo, intervistato da Fanpage.it, ricorda l’emozione della prima volta sul set e commenta le difficoltà agli inizi della sua carriera. L’attore – di recente nei panni di Luca Travaglia nella fiction Rai “Il clandestino” – parla del ruolo della gentilezza nel suo mestiere: “Sono stato educato a questo sentimento. È la chiave per lavorare bene e tirare fuori il meglio dalle persone”.
A cura di Eleonora Di Nonno
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Edoardo Leo è un po’ come Joseph Conrad, scrittore di cui si ricorda la celebre frase: “Come faccio a far capire a mia moglie che anche quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?”. L’attore e regista, intervistato da Fanpage.it, spiega che anche quando è in vacanza non smette di lavorare a storie che vorrebbe portare sullo schermo: “In viaggio mi guardo sempre intorno, respirare la vita degli altri mi serve sempre per pensare di raccontarla”. L’ultima vita che interpreta è quella di Luca Travaglia, ex ispettore dell’antiterrorismo, nella serie Rai 1 Il clandestino. Un personaggio diverso da Edoardo Leo ma con il quale condivide parte di vissuto: “Quando ho cominciato a lavorare non ero diplomato in nessuna scuola perché mi avevano bocciato dappertutto. Ho vissuto una situazione di clandestinità psicologica. Non mi sentivo pronto, non mi sentivo all’altezza. Mi sembrava di essere un intruso”. Ora, dopo trent’anni di carriera e di successi, le cose sono cambiate. L’attore, però, ricorda ancora con nostalgia come è stata la prima volta in scena.

Come ti sei sentito la prima volta davanti alle telecamere, quando il regista ha detto: “Azione”?

Ho un ricordo nitido di quella giornata, precisamente trent’anni fa, nell’aprile del 1994 (Edoardo Leo si riferisce al giorno in cui viene registrata l’intervista, ndr). Avevo un piccolissimo ruolo in un film in cui recitava Bernard Giraudeau, un uomo dal fascino incredibile. Non dimentico la sensazione di aver incontrato un grande attore, esercitava un certo magnetismo su tutti noi. La mia era solo una piccola parte ma quell’esperienza mi ha fatto pensare che la figura dell’attore fosse qualcosa di più di qualcuno che giocava a recitare.

Il film che ti ha fatto innamorare del cinema è “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola in cui in una scena uno dei protagonisti dice: “Credevamo di cambiare il mondo ma il mondo ha cambiato noi”. Tu hai cambiato il mondo del cinema o il mondo del cinema ha cambiato te?

Probabilmente il “mondo del cinema” non esiste. C’è chi fa il regista, chi fa l’attore, lo sceneggiatore ecc… di mestiere. Credo che lavorare in questo sistema di professionisti mi abbia migliorato. Ho incontrato tante persone interessanti che mi hanno fatto crescere e penso di aver portato, in piccolissima parte, anche io qualcosa di diverso o di interessante. Almeno spero.

Tra gli incontri decisivi anche quello con Gigi Proietti a cui hai dedicato un documentario. Nel docufilm racconti di quanto fosse maniacale nel suo lavoro: allenava il respiro, il diaframma… Hai fatto tuo questo modo di fare?

È l’unica cosa che puoi prendere da Gigi. Non puoi avere la presunzione di poterlo imitare. L’attenzione che aveva nei confronti dello spettacolo e del pubblico è stata una lezione che ha imparato chiunque abbia lavorato con lui.

Alle spalle hai tanti anni di gavetta e il successo è arrivato gradualmente. Oggi con piattaforme come TikTok è molto più facile e rapido diventare “famosi”, credi quella della fama stia diventando un po’ un’ossessione?

Si può diventare famosi per tanti motivi, a volte senza un mestiere. La notorietà, però, è come una valanga che a un certo punto finisce. Tu devi crescere e migliorarti, se non sai da dove parti non puoi sapere neanche dove arrivi. Io non ho niente in contrario verso i ragazzi che sul web fanno grandi exploit. Per me la fama non è mai stato un obiettivo, puntavo a fare bene il mio mestiere. La popolarità nel mio campo è incidentale.

Il filosofo Emil Cioran sosteneva: “Tutto quello che ho di buono viene dalla mia pigrizia, senza di essa chi mi avrebbe impedito di attuare i miei cattivi progetti?”. Quale è il tuo rapporto con l’ozio e la pigrizia?

Non sono pigro, sono lento. Ci metto tanto per scrivere un film, per decidere di fare un film, nel meditare le scelte nel mio lavoro sono molto attento e molto pignolo. Quando sono in vacanza mi guardo sempre intorno alla ricerca di una storia. Per me viaggiare significa sempre pensare a qualcosa che potrei portare nel mio mestiere, respirare la vita degli altri mi serve sempre per pensare di raccontarla. Non la vivo come come fatica, per me è una specie di esigenza vitale.

E nella vita? Sei più riflessivo o impulsivo? 

Di me dicevo di essere impulsivo perché fa “figo”. Poi, con un po’ di maturità in più, ho capito di non essere per niente istintivo, nella vita sono molto razionale. Nelle decisioni personali – anche quelle più stupide come comprare un paio di occhiali – impiego un sacco di tempo. Devo sconfessare la storia della mia impulsività.

Nel monologo a Sanremo 2024 dicevi: “Leggere che qualcuno ha scritto parole per il tuo dolore diventa una salvezza”. C’è un libro che ti ha salvato?

Ho iniziato a leggere Gabriel García Márquezz molto presto nella vita, in un periodo abbastanza complicato come quello dell’adolescenza. Il modo in cui tratta il tema del grottesco o del dolore mi ha influenzato tantissimo. Nel libro L’amore ai tempi del colera è raccontata una storia d’amore incredibile e quando sei adolescente, con i primi tumulti del cuore, leggere quelle parole, vedere che esiste quel tipo di amore, sicuramente mi è stato utile. Quando ci innamoriamo quello che facciamo è dedicare canzoni, ma quelle parole non sono nostre. C’è qualcuno che le ha scritte apposta per te e per la tua storia. È incredibile questa cosa. Penso davvero che il mestiere dell’attore e degli artisti sia un medicina. I poeti sono le figure più sottovalutate del mondo, nessuno compra un libro di poesie, nessuno pensa di averne bisogno. Poi ti capita di leggere una poesia nel momento in cui stai male e se riconosci che qualcuno sta parlando del tuo dolore, quel dolore si scinde perché lo stai dividendo con uno sconosciuto.

Con chi hai diviso il dolore in una poesia?

C'è una poesia di Bertolt Brech che si chiama Piaceri in cui l’autore elenca tutti i piaceri della vita rivolti verso sé stessi. L’ultima frase è “essere gentile”, cioè dice: "il mio piacere è essere gentile verso gli altri", ribaltando il meccanismo dell’inizio. L’ho stampata e affissa nel mio studio perché lo penso anche io. La gentilezza è sottovalutata, c’è chi la scambia con il buonismo ma non è la stessa cosa.

Nel tuo mestiere che ruolo ha la gentilezza? 

Ho scoperto che questo mestiere, soprattutto dirigere, mi calma. Quando sono sul set la chiave che mi permette di entrare in contatto e tirare fuori il meglio dalle persone è la gentilezza. Ma è stata una scoperta, non è un istinto primario. Sicuramente ha inciso il fatto che io sia stato educato a questo sentimento e poi ho cercata di praticarlo. In passato sono stato un tipo abbastanza fumantino, un bastian contrario, un rompiscatole.

Sei all’interno della fondazione “Una, nessuna, centomila”, impegnata a contrastare la violenza di genere. È sotto gli occhi di tutti che maschi e femmine vengano educati in maniera diversa. Credi che anche il cinema abbia una parte di responsabilità in questo senso?

Sono molto orgoglioso di farne parte perché mi è stata riconosciuto un impegno nel trattare certe tematiche. Di recente ho letto uno studio che mette in luce quanto uno scenografo o un costumista uomo guadagni più di una donna. In più, c’è una preponderanza di registi uomini o ruoli maschili sui set. È paradossale una situazione così nel mio ambito perché si tratta di un ambiente in cui confluiscono dentro persone con un certo tipo di sensibilità, con un certo tipo di attenzione. Anche nel mio mestiere viviamo questo problema che taglia in due la società.

In un passaggio del monologo di Sanremo, dici: “Ogni artista nel suo campo è stato un clandestino”. Tu quando ti sei sentito così?

Quando ho cominciato a lavorare non ero diplomato in nessuna scuola, mi avevano bocciato dappertutto, per cui all’inizio ho vissuto una situazione di clandestinità psicologica. Non mi sentivo pronto, non mi sentivo all’altezza. Quando andavo andavo sul set avevo la sensazione di essere un intruso.

Una delle narrazioni tipiche dei social è quella del “se vuoi puoi” e c’è chi ne parla di come un trappola. Quale è la tua posizione sull’argomento?

“Se vuoi puoi" solo se partiamo tutti dalle stesse opportunità. Oggi una donna non ha le stesse possibilità di un uomo, stessa cosa per un ragazzo del Sud rispetto a uno del Nord. Cerco di battermi affinché tutti abbiano parità di condizioni. Poi è vero che incide la componente della forza di volontà ma il credere in sé stessi viene un po’ da sé un po’ da come si è stati educati.

Edoardo Leo nella fiction Rai "Il clandestino"
Edoardo Leo nella fiction Rai "Il clandestino"

Citi spesso la frase di Woody Allen: “Il pubblico vuole vedere sempre gli stessi film: bisogna deluderlo, sennò non si farebbe nulla di interessante nell’arte”. Cosa c’è di sorprendente nella serie “Il clandestino”?

Qualche volta mi sono sentito eccessivamente raccontato all’interno della commedia, invece Luca Travaglia è un personaggio burbero, respingente, di poche parole e che mena. Questo è stato uno dei motivi per cui ho accettato di interpretarlo, per evolvermi. Fare sempre le stesse mi stanca e annoia le persone. Immagino che qualcuno possa rimanere deluso vedendo che nella serie la parte della “commedia” spetta a un altro attore. Però devo ammettere di essermi divertito molto a fare “Il clandestino”.

La serie è girata a Milano, che descrivevi come una città dall’animo inafferrabile. In che senso? 

A Milano non ci sono i milanesi. Ha un’animo meraviglioso e difficile da afferrare perché a differenza di città che cambiano ogni sette, otto o dieci anni, Milano cambia in continuazione. Ogni volta torni e la trovi diversa.

Durante le riprese sei stato molto da solo in giro per la città.

Ho scelto di stare in una casa invece che in albergo per rimanere il più possibile da solo. Mi sono portato dietro il giubbotto di pelle e le scarpe di Luca Travaglia e qualche sera  sono andato in giro per Milano in solitudine per cercare di respirare un po’ quella sensazione di clandestinità che prova il mio personaggio. A Milano si può restare invisibile e per me non è un male.

Nella serie Luca Travaglia deve fronteggiare un forte dolore e lo fa provando ad aiutare gli altri. È un modo di fare che ti appartiene?

Penso che ci siano due modi per espiare un grande dolore o un danno ricevuto. Uno è chiudersi in sé stessi e odiare tutti creandosi una corazza, l’altro è mettere a disposizione il proprio dolore per gli altri, soprattutto se si ha una colpa da espiare come quella di Luca Travaglia. Quello che fa è riconoscere chi è come lui per dare supporto e aiutare. Io non ho mai vissuto la sua condizione psicologica però ci sono dei punti in comune tra di noi. Quando la gente mi ferma per strada sono sempre abbracci o pacche sulle spalle. Mi immaginano un po’ più mattacchione di quello che sono, merito delle commedie in cui ho recitato. Io in realtà sono abbastanza schivo e fuori da molte logiche del mio mondo.

Molti tuoi colleghi del mondo dello spettacolo condividono tanto della loro vita sui social.

Quello che sta sui social è Edoardo Leo, non Edoardo. Li uso come una vetrina per pubblicare le cose di lavoro e ogni tanto vado a leggere i commenti per capire se un film è penetrato nell'immaginario delle persone, se è piaciuto o no. La mia vita privata non è così interessante da essere condivisa, non credo sia così appassionante vedere dove vado in vacanza, cosa sto mangiando o quali calzini indosso. Spesso liberiamo i nostri pensieri sui social perché è più facile dire: “Abbasso la guerra” su Instagram invece che fare un film sulla guerra o scriverci una canzone per scuotere le coscienze. Gaber o Ettore Scola dovevano fare questa fatica per comunicare certi temi alle persone. Il pubblico, di conseguenza, doveva fare lo sforzo di cercare di capire cosa ci fosse dentro quelle opere. Oggi il messaggio di un’artista sembra un comunicato stampa. Non serve a niente scrivere: “Abbasso la guerra” sui social. Se sento l’esigenza di dire qualcosa lo devo fare con il mio mestiere.

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