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Opinioni

Salario minimo e diritti dei lavoratori non sono una priorità per il governo di Giorgia Meloni

Da un lato il Cnel di Brunetta, secondo cui basta la contrattazione collettiva per garantire stipendi dignitosi. Dall’altro la Cassazione che dimostra che così non va. E intanto Giorgia Meloni, anche in conferenza stampa, dimostra che povertà e lavoro non sono una sua priorità.
A cura di Roberta Covelli
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Il 2023 è ormai concluso da qualche giorno e la conferenza stampa di fine anno, poi slittata al 4 gennaio 2024, ha offerto una panoramica sulle varie scelte di politica e di propaganda attuate dal governo Meloni. Un tema, però, è stato il grande assente: quello dei diritti dei lavoratori, dalla retribuzione dignitosa alle tutele, a dimostrazione di come anche la proposta sull’introduzione del salario minimo legale sia stata definitivamente archiviata da questo esecutivo.

Dopo il confronto con il Cnel, e il conseguente svuotamento della proposta presentata dalle opposizioni, il disegno di legge che avrebbe previsto un compenso minimo orario è stato di fatto accantonato. Restano così irrisolte tutte le questioni legate alla povertà e al lavoro (e alla povertà nonostante il lavoro).

La situazione italiana tra salari, lavoro e povertà

Secondo i dati Istat, riferiti al 2022, in Italia 2,18 milioni di famiglie sono sotto la soglia di povertà assoluta: il dato è cresciuto di più mezzo punto percentuale rispetto all’anno precedente, anche a causa dell’effetto dell’inflazione, che erode il potere d’acquisto e colpisce soprattutto chi ha redditi bassi. La stessa indagine mostra come l’incidenza della povertà non sia un’esclusiva di pensionati e disoccupati, ma riguarda anche chi lavora: quasi il 15% delle famiglie operaie è sotto la soglia di povertà assoluta.

Negli ultimi trent’anni, inoltre, i salari in Italia non sono cresciuti, anzi: secondo i dati Ocse, la media degli stipendi in Italia, tra il 1990 e il 2020, è diminuita di quasi tre punti percentuali, al contrario del resto d’Europa.

Il costo del lavoro o la pressione fiscale a carico delle aziende non sono scuse: secondo l’Istat, tra il 2007 e il 2020, anche grazie a varie misure di decontribuzione (cioè lo Stato che paga i contributi al posto delle imprese), i contributi sociali dovuti dal datore di lavoro sono diminuiti del 4%, ma la retribuzione netta a disposizione dei lavoratori si è ridotta del 10%. La riduzione dei costi aziendali, tramite incentivi statali alle imprese, non si è tradotta insomma in migliori condizioni economiche per i lavoratori, ma, al più, in maggiori profitti per gli azionisti.

La povertà deriva poi anche da un precariato ormai strutturale. Nei supermercati aperti anche durante le festività troviamo commessi e scaffalisti spesso impiegati in appalto, negli ospedali ci sono infermieri e operatori socio-sanitari che lavorano con partita Iva. Molte persone sotto i venticinque anni, o sopra i cinquantacinque, hanno contratti a chiamata, con turni decisi di volta in volta, spesso senza nemmeno un’indennità di disponibilità a compensare le difficoltà organizzative. Secondo le statistiche, tutte queste persone sono occupate: nella definizione Istat, infatti, rientrano tutti coloro che "nella settimana a cui si riferisce l'intervista hanno svolto almeno un'ora di lavoro retribuita", come se un impiego di poche ore potesse garantire una retribuzione dignitosa.

E nemmeno il lavoro dipendente è più un impiego stabile: grazie al Jobs act, tutti i contratti a tempo indeterminato stipulati dal 7 marzo 2015 sono a tutele crescenti, cioè sono di fatto privi di sanzioni effettive e dissuasive contro il licenziamento ingiustificato, come ha in più occasioni denunciato tanto la Corte Costituzionale quanto il Comitato europeo per i diritti sociali.

L’assenza di un salario minimo legale e il ping pong istituzionale

Al precariato ormai strutturale nel mercato del lavoro italiano, si aggiunge l’assenza di una previsione di legge che fissi un compenso orario minimo, anche se non sono mancate negli anni proposte per la sua introduzione.

Già con la legge delega 183/2014, con cui il Parlamento assegnava al governo Renzi il compito di riformare il diritto del lavoro, si richiedeva l’introduzione di un compenso orario minimo. Sul punto, però, la delega non fu esercitata: in nessuno dei decreti attuativi del cosiddetto Jobs act è presente una qualche forma di fissazione del salario minimo.

Lo stesso Renzi, negli anni successivi, ha avuto sul tema un atteggiamento altalenante, passando dalla previsione in campagna elettorale di un (fantasioso) salario minimo da 10 euro al definire le proposte parlamentari sul salario minimo una "pagliacciata". Già nella scorsa legislatura, sia il PD, sia il Movimento 5 stelle, sia Liberi e Uguali avevano depositato progetti di legge parlamentari sul salario minimo legale, senza giungere all’approvazione di un testo condiviso, né durante il governo gialloverde, né durante il successivo Conte-bis. Anche Fratelli d’Italia, dall’opposizione, era favorevole al salario minimo legale e aveva presentato alla Camera, nel gennaio 2019, una proposta normativa in materia. Ora però, al governo insieme a Lega e a Forza Italia, ha di fatto affossato la proposta congiunta delle opposizioni: con un unico emendamento in commissione, il testo è stato radicalmente cambiato, trasformando la proposta al punto da rendere la misura più simile alle gabbie salariali che non a un compenso minimo orario. Il risultato è stato che i firmatari dell’opposizione hanno ritirato l’appoggio e che la maggioranza ha votato alla Camera un testo che non introduce un salario minimo legale, ma delega il governo a occuparsi della materia.

In agosto, Meloni aveva chiesto al Cnel, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, un parere sull’opportunità di legiferare in materia di salario minimo. La posizione dell’organo consultivo non è stata molto diversa da quella esternata, diversi mesi fa, da Renato Brunetta che, nel frattempo, è stato nominato proprio a capo del Cnel.

La contrattazione collettiva non basta: equivoci e problemi sulle relazioni industriali

Il Cnel ha infatti sottolineato che la direttiva europea 2022/2041, sul salario minimo, non impone la fissazione di un compenso orario per legge, ma predilige anzi la soluzione contrattuale, che in Italia coprirebbe già il 95% dei lavoratori del settore privato. La mancanza di un obbligo, unita alla considerazione che la povertà lavorativa derivi anche, se non soprattutto, da questioni complesse e diverse dal salario, porta il Cnel a concludere contro la necessità di una fissazione legale di una retribuzione minima. Nel ringraziare il Consiglio, la sintesi di Meloni è impietosa: il salario minimo legale non è la soluzione contro il lavoro povero.

Come già nelle dichiarazioni di Brunetta, anche le conclusioni del Cnel, pur certamente meglio argomentate, tralasciano alcuni problemi essenziali della contrattazione collettiva italiana.

Primo. I contratti collettivi nazionali, in Italia, non sono validi erga omnes, perché non è mai stata applicata la seconda parte dell’articolo 39 della Costituzione. In altri termini, manca una legge di rappresentanza che garantisca a sindacati e associazioni datoriali il potere di stipulare contratti collettivi vincolanti per tutti i lavoratori di una certa categoria.

Secondo. Anche in ragione di questa mancata attuazione, il numero di contratti collettivi è aumentato esponenzialmente: nel 2008 erano stati depositati oltre 400 contratti collettivi nazionali, diventati oltre 700 nel 2016. Ora sono poco meno di 1000: più che raddoppiati in quindici anni. Questa sovrapproduzione, derivante anche dalla presenza di contratti pirata, cioè contratti, spesso peggiorativi, stipulati con organizzazioni sindacali non rappresentative, è alla base del fenomeno del dumping contrattuale, la pratica che permette ai datori di lavoro più spregiudicati di scegliere il contratto collettivo più conveniente per l’impresa (e meno tutelante per i lavoratori).

Terzo. La contrattazione collettiva è una negoziazione che dipende dai rapporti di forza sul mercato del lavoro. Quando i governi delegittimano la dialettica con le parti sociali, quando lo strumento dello sciopero viene depotenziato, quando i lavoratori sono precari e ricattabili, e la sindacalizzazione si riduce, il potere di contrattare le condizioni migliori di lavoro (e di salario) si assottiglia, al punto da arrivare perfino a fissare minimi tabellari sotto la soglia di dignità.

Negli stessi giorni in cui, nonostante questi problemi, il Cnel reputava sufficiente la contrattazione collettiva per la fissazione del minimo salariale, la Cassazione ne ha indirettamente smentito la ricostruzione, applicando con sei diverse sentenze l’ultima tutela che resta ai lavoratori: la Costituzione.

I recenti interventi della Corte di Cassazione sul Ccnl vigilanza privata

L’articolo 36 prevede infatti che la retribuzione, oltre che proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto, debba essere "in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa".

Tra il 2 e il 10 ottobre, sono state depositate ben sei sentenze di Cassazione che riconoscono come il Contratto collettivo nazionale "Istituti e imprese di vigilanza privata e servizi fiduciari" violi questo principio. Il Ccnl vigilanza privata, infatti, pur essendo stipulato da organizzazioni (sindacali e datoriali) rappresentative, non garantisce minimi retributivi dignitosi.

Il sigillo della Cassazione arriva dopo precedenti giudizi di merito, che già avevano riconosciuto l'insufficienza della retribuzione fissata nell'accordo collettivo in questione. Il fatto che i soggetti firmatari siano organizzazioni rappresentative, e non sigle pirata, non basta: se è possibile presumere che i sindacati confederali ottengano condizioni dignitose, è possibile però anche dimostrare quando questo non avviene. Il lavoratore può quindi provare in giudizio che la retribuzione è insufficiente e il giudice, verificata l'inadeguatezza del salario minimo fissato nel contratto collettivo, deve ridefinire lo stipendio, attraverso il paragone con altri contratti collettivi di "settori affini o mansioni analoghe" o anche tramite "indicatori economici e statistici".

Il principio di diritto è allora chiaro, e ribadito autorevolmente: la retribuzione dignitosa è un diritto costituzionale, la contrattazione collettiva è in generale un buon modo per fissare in concreto una cifra sostenibile per entrambe le parti, ma questo può anche non succedere. E, quando non succede, il giudice deve ridefinire il salario secondo equità, attuando il principio costituzionale.

La povertà è un problema democratico che non si risolve senza cultura dei diritti

Resta però il problema di fondo, mostrato dalle statistiche sulla povertà e sull'andamento dei salari, ma anche dai silenzi e dai discorsi della classe dirigente, governo Meloni compreso.

La Costituzione è infatti carta morta se le associazioni datoriali propongono contratti capestro, se i sindacati non hanno la forza di negoziare condizioni migliori, se per ottenere un salario dignitoso ci sono lavoratori che devono rivolgersi ai tribunali, con il sacrificio economico e umano che questo iter richiede.

Quante sono le persone sottopagate che non hanno la possibilità di presentare un ricorso giudiziario? Quanti si arrabattano tra diversi impieghi, sperando che, dopo il contratto a chiamata, dopo l'apprendistato, dopo il contratto a termine, arrivi finalmente la stabilità, salvo poi scoprire che la stabilità non esiste quasi più nel nostro ordinamento? Quanti ancora, soprattutto, non sono consapevoli dei diritti che spettano loro, e aspettano lo stipendio come si aspetta una mancia, ringraziando se e quando arriva?

Il diritto del lavoro è nato di fronte all'aumento dello squilibrio di potere tra persone e imprese: nell'Ottocento il padrone della fabbrica, usando la tecnologia, non redistribuiva il plusvalore, né garantiva spontaneamente condizioni dignitose ai lavoratori, ma anzi sfruttava quanto più possibile uomini, donne, bambini. Le leggi che man mano si sono attestate nella storia (i limiti orari alla giornata di lavoro, l'assicurazione contro gli infortuni, l'età minima per l'impiego…) servivano a tutelare le persone contro il mercato e a riequilibrare un rapporto di lavoro non paritario. Negli ultimi decenni, quest'opera di rimozione degli ostacoli si è arrestata e il mercato è tornato a essere il supremo regolatore dei rapporti, lasciando intatte, quando non aggravando, le disparità.

Il risultato dell'aumento delle disuguaglianze, con la cristallizzazione dei rapporti di dominio esistenti, si traduce anche nella riduzione degli spazi di elaborazione, politica e culturale, collettiva. Assorbite dal lavoro sempre più flessibile e pervasivo, incapaci spesso di risparmiare qualcosa su stipendi uguali da trent'anni, e ora erosi dall'inflazione, con il constante e talora inconscio timore di perdere la propria fonte di reddito, le persone non hanno tempo né strumenti per informarsi, approfondire, capire, immaginare, conoscere e rivendicare i propri diritti.

La povertà è un problema democratico perché un elettorato in perenne stato di bisogno non ha modo di interessarsi alla politica, né di emanciparsi dalle esigenze primarie e dalle paure di base. E ad aggravare questa disuguaglianza cristallizzata c'è anche la retorica politica degli ultimi anni.

Il lavoro non è un tema di governo, e la conferenza stampa di Meloni lo dimostra

Peggio allora dell'affossamento del salario minimo legale (che non sarebbe stata la panacea di tutti i mali, ma che avrebbe potuto garantire, anche ai sindacati, una base di negoziazione dignitosa), c'è il silenzio sui diritti dei lavoratori, che ha caratterizzato anche la conferenza stampa di Giorgia Meloni. Per la presidente del Consiglio, che non ha detto una parola sul salario minimo, è stato invece importante ribadire che "non c'è un Governo ostile a chi produce, anzi", ricordando un suo slogan: "non disturbare chi vuole fare".

A questa precisazione si aggiunge il rovesciamento di ruoli, la retorica di inversione dei rapporti di dominio, con la critica allo Stato "forte con i deboli, debole con i forti, ostile delle volte a chi creava ricchezza, chi produceva posti di lavoro", allargando così il vittimismo politico al mondo delle imprese.

E anche l'unico altro frangente in cui Meloni ha parlato di lavoro (oltre ai due vaghi accenni in tema di intelligenza artificiale e maternità) è stato ancora in ottica di favore alle imprese, non per forza le più virtuose.

Uno dei principi introdotti all'interno della Manovra di bilancio in questo caso, quello del più assumi meno paghi, cioè più è alta l'incidenza di manodopera che hai in rapporto al fatturato meno tasse paghi.

La misura in questione, tra l'altro, agevolerebbe imprese labour intensive, in cui è più alto il rischio di sfruttamento dei lavoratori. Qualche esempio? Le aziende che offrono servizi di pulizie, di facchinaggio, di vigilanza…

Sullo sfondo restano i discorsi e le misure della destra contro l'assistenza sociale, che è una parte del mondo del lavoro: quando infatti la Costituzione parla di lavoratori non intende soltanto chi abbia un impiego, ma comprende le persone, tra cui disoccupati, pensionati, inabili. Gli attacchi al reddito di cittadinanza, fino al suo smantellamento, così come la riforma del lavoro, beffardamente decisa il Primo maggio, come anche le scelte retoriche della conferenza stampa di Giorgia Meloni, non sono che una conferma: il lavoro dignitoso non è una priorità di questo governo.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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