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Quando la politica ostacola il salvataggio di vite in mare: il caso Seawatch

Il governo ha modificato i decreti sicurezza dell’ex ministro Salvini. Ma per le organizzazioni umanitarie che operano nel Mediterraneo rimangono molti ostacoli all’attività di ricerca e soccorso. Si tratta spesso di blocchi burocratici che impediscono ai mezzi delle Ong di svolgere la loro funzione. Il senatore Gregorio De Falco ricostruisce per Fanpage le vicende relative alla nave Sea Watch e agli altri mezzi fermati in porto per presunte violazioni delle norme amministrative.
A cura di Redazione
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di Gregorio de Falco (Senatore – Gruppo Misto)

La vera e propria "guerra amministrativa" condotta contro coloro che hanno la "colpa" di salvaguardare la vita umana in mare, prosegue senza tregua. Si è detto in altro articolo, di quanto ENAC abbia deciso, bloccando con motivazioni giuridicamente inconsistenti ed infondate il velivolo denominato "Moonbird".

Non è da meno l'accanimento amministrativo delle Capitanerie di Porto verso le navi delle ONG. Il 20 settembre scorso, in conseguenza del quinto fermo amministrativo di navi umanitarie in cinque mesi, quello della Sea-Watch 4, Medici Senza Frontiere ha emesso un comunicato stampa in cui denuncia: «ancora una volta un uso strumentale del diritto marittimo che nasconde la decisione politica di impedire alle navi umanitarie di salvare vite in mare»

Ed è fin troppo evidente come le ispezioni amministrative a bordo delle navi umanitarie ogni volta che una di esse entra in un porto italiano siano strumentalmente utilizzate per bloccarne le attività. Si tratta di controlli lunghi e sempre molto meticolosi, che si concludono solo quando vengono evidenziate presunte irregolarità. Nel caso del fermo della Sea Watch 4 il Comando di bordo è stato accusato di salvare “sistematicamente” le persone naufragate in mare. L'accusa dunque è di avere utilizzato la nave per finalità umanitarie e non mercantili.

Nel vuoto delle attività di ricerca e soccorso istituzionale, le navi umanitarie oggi operano effettuando attività di monitoraggio e pattugliamento nel Mediterraneo centrale. All'occorrenza  rapportano notizia di una eventuale unità navale in pericolo alle Autorità responsabili del soccorso marittimo, intervenendo poi dietro loro coordinamento oppure direttamente in caso di urgenza o in caso di  inerzia da parte delle autorità (ma sempre e solo in situazione di necessità), in collaborazione con velivoli come «Moonbird» e con Alarm Phone. Il divieto disposto per le navi umanitarie, quale effetto di una vera e propria persecuzione amministrativa da parte delle Capitanerie di porto tradisce un uso distorto e strumentale del diritto usato contro quelle risorse della società civile che devono, invece, essere lasciate libere di riprendere le loro attività, poiché perdura l'assenza di assetti istituzionali in mare.

Le Capitanerie hanno fermato in porto le navi «Mare Jonio», di bandiera italiana, la «Sea Watch3», ed anche la «SeaWatch4» di bandiera tedesca, perché assumono che quelle effettuerebbero stabilmente attività di soccorso marittimo, senza avere la certificazione amministrativa relativa alla idoneità tecnica. Ma nell'ordinamento italiano le uniche unità costruite ed allestite per la salvaguardia della vita umana in mare sono proprio le unità navali specializzate della Guardia Costiera (sono quelle che recano la scritta SAR ben visibile dall'alto), secondo quanto stabilisce il Piano nazionale SAR, documento approvato con decreto dell'allora Ministero dei Trasporti, nel 1996. Si deve anche tenere conto del fatto che nell'ordinamento della Germania (lo Stato di Bandiera delle unità Sea Watch) non sembra sia contemplata la possibilità di effettuare tale classificazione. Inoltre osserviamo che le motovedette in uso alla c.d. "Guardia Costiera" libica non sono certo appositamente armate, certificate e fornite delle adeguate dotazioni di soccorso. Basti pensare che si tratta di 10 vecchie unità classe 500 GC, costruite con fondi dell'ambiente, per le riserve marine, e di 2 vecchie unità navali della Guardia di Finanza.

Ci si deve poi chiedere se comunque possa esistere, in astratto, il limite ravvisato dall'Amministrazione secondo cui non si potrebbe utilizzare una nave italiana in modo tendenzialmente stabile per il soccorso marittimo, se la sua idoneità tecnica non risulti da una certificazione amministrativa. Il Soccorso in mare è istituto dominato dalla influenza del principio solidaristico che si radica e trova fondamento nell'articolo 2 della Costituzione, ed è questo principio interpretativo generale la lente attraverso cui risolvere i dubbi sule modalità ed i limiti di effettiva applicazione delle regole e degli istituti. Dunque, in concreto, alla luce di tale principio si deve valutare se sussista l'obbligo di quella specifica certificazione.

È vero che per il nostro ordinamento un armatore ha astrattamente la facoltà di destinare una unità navale appositamente allo scopo del «soccorso marittimo» e quindi ottenere la relativa idoneità. Tuttavia si deve osservare che la attitudine tecnica non sembra avere a che fare con la salvaguardia della vita umana in mare, ma piuttosto con la quantificazione dei compensi e delle indennità dovute per il salvataggio di nave e carico. Tale materia è regolata dalla Convenzione «Salvage 1989» e ciò conferma che quella attitudine tecnica rileva nell'ambito della disciplina civilistica delle obbligazioni che derivano dalle attività di assistenza, salvataggio, ritrovamento e recupero dei relitti della navigazione e non in relazione al salvataggio della vita in mare.

Con riguardo all'imbarco di un numero di persone maggiore di quello contemplato dalla certificazione, si deve evidenziare che l'articolo IV della Convenzione Solas tratta i casi di forza maggiore e tale è un soccorso in mare. Al riguardo la Solas afferma che "Le persone che si trovano a bordo di una nave per causa di forza maggiore o in conseguenza dell’obbligo imposto al comandante di trasportare naufraghi o altre persone, non devono essere computate allorché si tratta di verificare l’applicazione alle navi di una qualsiasi prescrizione della presente Convenzione".

È chiaro quindi che le Capitanerie e l'ENAC stanno bloccando navi e aerei attraverso una vera e propria torsione normativa-tecnica di polizia della navigazione rispetto alle finalità di quelle norme, mentre al contempo tali Autorità disattendono gli obblighi di soccorso in mare, con l’assenso, se non il pieno appoggio, degli Stati Europei. L’Italia e gli Stati membri dell’UE stanno, infatti, vergognosamente e sistematicamente ignorando il dovere legale e morale di salvare la vita umana, scegliendo invece di imporre strumentalmente misure burocratiche e amministrative persecutorie. Ciò non solo impedisce i salvataggi, ma ha il chiaro intento di eliminare anche ogni possibilità di testimonianza di quanto accade nel Mediterraneo centrale. Queste decisioni compromettono la già limitata capacità di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale e avranno conseguenze devastanti, portando inevitabilmente a un maggior numero di vittime.

Il nostro Paese non può proseguire in questa strategia ipocrita, ma deve riconquistare la dignità e l'orgoglio di restituire all'UE quel sordido mandato a respingere in mare o in Libia i disperati, non accettando più questo vergognoso ruolo da sicario, denunciando subito gli ipocriti accordi con i libici ai quali, almeno gli ultimi tre o quattro governi hanno di fatto appaltato il controllo marittimo delle frontiere del sud Europa, perché provvedano loro a fare il lavoro sporco dei respingimenti collettivi.

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