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Opinioni

Poveri, disoccupati e anti establishment: quello a Trump è il voto di chi ha perso tutto

Donald Trump ha fatto campagna elettorale negli stati più colpiti dalla crisi delle industrie, e lì ha promesso di creare milioni di posti di lavoro, punire gli industriali, proteggere il lavoro degli americani. Ha dato speranza a chi è stato abbandonato dalla politica.
A cura di Michele Azzu
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Con Donald Trump vince l’anti establishment anche in America. Già, perché anche se dovremo aspettare ancora dati più precisi sulla composizione del voto, possiamo già dire che buona parte del successo inaspettato di Donald Trump arriva dal forte carattere anti establishment del voto, su cui il candidato repubblicano ha basato interamente la sua campagna elettorale.

Di questo si è parlato spesso, anche sui media esteri e italiani. Come per il voto della Brexit nel Regno Unito, come per il referendum greco che poco più di un anno fa disse no al nuovo piano dell’austerity dell’Unione Europea (salvo poi venire comunque imposto con la forza sul paese), e in generale la crescita dei movimenti e partiti populisti, di estrema destra, contrari ai partiti e alle elite del potere.

“Hillary Clinton è la persona più corrotta”, ha ripetuto all’infinito Trump, che nonostante sia un miliardario 70enne da decenni una delle persone più potenti in America, oltre che un noto personaggio televisivo, è riuscito nella sua intenzione di impostare la campagna imponendosi come outsider. Trump contro i “poteri forti”, contro la finanza, contro le elite, contro le lobby americane.

Ma di cosa parliamo quando parliamo di anti-establishment? O meglio, cosa significa veramente per quei milioni di persone che vanno a votare, in Europa come in America, per mettere a matita su una scheda elettorale un enorme “vaffa” ai governi, alle istituzioni, alla finanza? Se non proviamo a capire questo, l’etichetta anti-establishment non significa nulla.

Forse il tema diventa più chiaro se facciamo riferimento alle cause dei sentimenti anti-establishment. La disillusione, la perdita di fiducia degli elettori, la rabbia. “Se c’è un singolo tema che emerge sempre dai miei incontri in stati come il Maine, Wisconsin, Nevada, è la grande disillusione”, scrive sul Guardian il corrispondente Paul Lewis, che ha girato l’entroterra del paese per sentire gli elettori.

Come nel voto della Brexit, infatti, anche negli USA a guardare la mappa del voto si nota che Hillary ha perso ovunque, eccetto negli stati delle grandi città: New York, Los Angeles, Chicago, Las Vegas. E nel resto d’America? C’è la disillusione, come nel West Virginia. Nella contea di McDowell c’è stata alle primarie la più alta concentrazione di voto per Donald Trump di tutti gli USA (su un totale di 3.000 contee). Il nuovo presidente degli Stati Uniti prese la bellezza del 91.5% dei voti. Eppure qui nel 2008 vinse Obama.

A McDowell, metà della popolazione vive grazie ai sussidi di povertà. L’aspettativa di vita è in declino dal 1981 ad oggi, anche a causa dell’alto tasso di suicidi e dell’uso di droga. Ma Donald Trump, qui, ha promesso di riaprire una vecchia miniera ormai chiusa, che dava lavoro a migliaia di persone. E anche se le sue promesse possono sembrare vaghe, se la riapertura di una maniera è di fatto improbabile, Hillary Clinton è stata del tutto assente dalle McDowell d’America, assieme al suo partito democratico. Non è tanto importante, dunque, chiedersi se gli elettori credano o no alle promesse di Trump sul lavoro, quanto il fatto che Clinton abbia ignorato il problema.

Andando oltre il caso del West Virginia, c’è da considerare il voto a favore di Trump nella cosiddetta “rust belt” d’America, ovvero la “cintura di ruggine”, termine che fa riferimento alla decadenza degli stati della regione del Midwest – Michigan, Ohio, Pennsylvania e Wisconsin – dove hanno chiuso così tante fabbriche da causare disoccupazione, abbandono, povertà, assieme alla ruggine delle industrie che muoiono.

Nei giorni precedenti al voto il regista ed attivista americano Michael Moore – premio Oscar per il documentario “Fahrenheit 9/11” – aveva definito questi luoghi la “rust belt della Brexit”, paragonandoli alla depressione sociale dell’entroterra britannico dove senza più lavoro, industrie ed esercizi commerciali, lo scorso giugno in massa le persone hanno votato per uscire dall’Unione Europea (in quel caso identificata come establishment).

Ecco, proprio negli del Midwest americano, Moore, fra i pochissimi giornalisti a dare per certa già da tempo la vittoria di Trump, spiegava che il nuovo presidente degli USA avrebbe concentrato la sua campagna. La cintura della ruggine dell’Ohio, del Wisconsin, del Michigan e della Pennsylvania erano una volta tradizionalmente di sinistra, e cioè democratici, ma qui dal 2010 ormai si vota a destra (con l’eccezione della Pennsylvania).

E in questi stati, decisivi per la vittoria, Trump ha fatto campagna negli ultimi mesi spiegando come l’appoggio di Hillary Clinton per l’accordo commerciale NAFTA (tra gli USA, il Canada e il Messico) sia stato decisivo per la fine delle industrie nel Midwest. E così anche il TPP, l’accordo commerciale degli USA con gli stati dell’anello del pacifico e i trattati commerciali con la Cina.

La ruggine nel Midwest, insomma, l’avrebbero portata questi accordi, sostenuti dalla Clinton e finalizzati dai governi democratici, e che ora che è al governo Trump intende cancellare. Alla stessa maniera di Ronald Reagan nel 1980, Trump ha promesso di riportare milioni di posti di lavoro in questi stati, costruendo infrastrutture. Molto anti-establishmenti di Trump, insomma, è passato dalla crisi del lavoro, dall’abbassamento dei salari, dalla fine dell’industria, dalla rabbia e la disillusione che vengono da tutto questo.

Nei suoi comizi, Trump ha spesso ripetuto una storiella di fantasia: il capo dell’azienda automobilistica Ford decide di delocalizzare le industrie in Messico, e Trump glielo impedisce imponendo alti dazi doganali sulle quelle auto messicane, sbattendo perfino il telefono in faccia a Ford (pace all’anima sua, Henry Ford morì nel 1947 ed oltre ad essere un grande industriale fu noto per aver introdotto alti salari per gli operai). In tutti questi stati Trump oggi ha vinto. E non importa tanto il fatto che gli elettori credano o meno alla storiella di Ford e dei milioni di posti di lavoro, quanto il fatto che Trump sia lì per loro.

Perché a ben guardare non si tratta solo di lavoro e salari, non si tratta solo di poveri. Se così fosse, probabilmente Trump non ne avrebbe avuto abbastanza per vincere. Si tratta, soprattutto, del bisogno disperato di riprendere in mano il controllo delle proprie vite nel momento in cui gran parte delle decisioni che le governano sono guidate da meccanismi incontrollabili, a cui la politica non riesce più a rispondere. Dalla globalizzazione, dal terrorismo, dalle crisi finanziarie e delle borse. A questi mostri incontrollabili, Trump ha messo il guinzaglio del protezionismo, della xenofobia, delle menzogne elettorali.

Il carattere di candidato dell’establishment di Clinton – a differenza, per esempio del suo contendente alle primarie molto amato dai giovani, Bernie Sanders – era ciò che di peggio poteva capitare in questo contesto. Perché se Trump è un bugiardo miliardario xenofobo e maschilista che viaggia in un jet privato, Hillary Clinton rappresenta suo malgrado tutto ciò verso cui oggi la maggioranza degli elettori non crede più, non si fida più, prova disillusione e rabbia. "Riprendiamo il controllo", prometteva uno slogan della Brexit nel Regno Unito, e questo ha promesso Trump agli elettori: rifacciamo l'America grande, riprendiamo il controllo della paura.

E dove i processi incontrollabili della globalizzazione, della delocalizzazione, della crisi finanziaria e del precariato mondiale hanno creato disastri, ora la gente cerca risposte. E più sono assurde, irreali, a volte ridicole, meglio è. Perché, forse, sono le uniche risposte immediate possibili. Dare la colpa agli immigrati, ai musulmani, ai messicani, ai trattati commerciali con i paesi esteri, costruire un muro.

Certo, questo non è l'unico motivo della vittoria di Trump, le ragioni sono tante. Ma tutto questo, forse, non sarebbe successo se i governi di sinistra fossero intervenuti sul problema del lavoro e della povertà, limitando i danni nella distribuzione della ricchezza che ha ucciso il ceto medio creando una forbice sempre più ampia fra ricchi e poveri. Creando milioni di persone non hanno più nulla da perdere. E la cui ultima spiaggia è stata votare le promesse di Trump.

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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