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Giancarlo Piacci: “I santi d’argento è un libro politico, racconto la società senza risvolti consolatori”

Ne I santi d’argento, lo scrittore Giancarlo Piacci usa una cornice noir per immergere le mani nella politica tra carceri, disagio mentale, problemi abitativi e violenza di genere.
A cura di Francesco Raiola
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"Il degrado siamo noi" scrive Giancarlo Piacci ne I Santi d'argento, libro pubblicato per Salani Editore, che segna il ritorno dello scrittore e libraio napoletano che sceglie una cornice noir per scrivere un libro che è pieno di politica, intesa nel senso più "civile" del termine. Ci sono il carcere, i problemi sempre più impellenti della condizione abitativa, la sofferenza mentale e anche la violenza sulle donne in questo libro che scorre via grazie a una narrazione che fa enorme attenzione alla scrittura, a un perfetto incastro di trama e alla capacità di disegnare con precisione personaggi e sottotrame senza mai risultare prolisso. Vincenzo vive a Bacoli, quando viene contattato da un uomo che gli comunica la morte di un uomo, il figlio del suo amico (termine che nasconde molte cose, in realtà) Giovanni Testa, chiedendogli di aiutare a scoprire chi sia stato a ucciderlo. Malvolentieri, quindi, l'uomo torna a Napoli per un breve periodo, soggiornando a casa della madre (il padre è morto e anche questo avrà un peso nel tratteggiare il protagonista) e immergendosi nuovamente nel ventre di Napoli alla ricerca di una verità che lo porterà a rivivere pezzi dolorosi del suo passato.

È un libro che quasi usa la storia noir per parlare anche della città, quando cominci a lavorare a I santi d’argento?

Il libro è stato scritto tra il 2019 e il 2020, ma non si è trattato di un percorso lineare. È stato un processo tortuoso fatto di ripensamenti, abbandoni e improvvise accelerazioni. Posso dire che nell’estate che seguiva la pandemia la storia ha preso definitivamente la sua strada, da lì è stato tutto in discesa.

Qual è stato il nucleo da cui sei partito per sviluppare la storia?

L’idea di questa storia mi ronzava in testa da un po’. Fin dall’inizio avevo chiara la volontà di voler scrivere un Noir che avesse come protagonista la città di Napoli e le sue contraddizioni. Probabilmente, la spinta decisiva è stata la volontà di provare a confrontarmi con una narrazione della mia città che fosse più vicina alla realtà che vivo direttamente. Napoli è senza dubbio molto raccontata negli ultimi anni, tuttavia volevo che trasparisse la realtà di un territorio in trasformazione, costituito da un’umanità stratificata e complessa. Volevo portare in luce la parte della città solitamente ai margini ed esclusa da qualsiasi racconto. Così sono partito dalle complicate vicende personali di Vincenzo, il mio protagonista, per arrivare a quelle che interessano la città tutta. Così, sono partito dalla richiesta di aiuto a Vincenzo e dal suo legame ambivalente con la città.

In che modo sono entrate e hai sviluppato le varie sottotrame?

Alcuni temi facevano già parte dell’idea iniziale, come la sofferenza mentale, il problema abitativo o le solitudini; mentre altre si sono imposte man mano che la storia avanzava e che la complessità dei personaggi cresceva. Ad esempio, era impossibile raccontare i trascorsi del mio protagonista tra gli anni Ottanta e Novanta illudendomi di poter tenere fuori la droga, con tutto quello che ha comportato per le generazioni che hanno attraversato quei decenni. Le storie dei personaggi si sono palesate un po’ alla volta, guadagnando sempre più spazio. Così, alcune sottotrame, che dovevano essere solo accennate, hanno finito per inspessirsi durante la stesura e altre hanno necessariamente lasciato loro spazio. Ho provato, però, a fare in modo che fossero in un rapporto dialettico tra loro, affinché nessuna prevalesse veramente sulle altre, ma che concorressero tutte a costituire la storia di un percorso personale e collettivo.

Vincenzo lo racconti spesso nelle sue dinamiche relazionali, quelle con la madre, col padre che non c’è più, con Giovanni, ma anche con Napoli/Bacoli. Come è cambiato Vincenzo mentre scrivevi? Se è cambiato.

Vincenzo per me è stato quasi un’ossessione. Sono entrato nella sua vita talmente a fondo che alle volte mi sorprendevo a pensare con la sua voce nella testa, con le sue parole, con il suo modo di guardare il mondo. Avevo chiaro fin dal principio che questa vicenda dovesse essere raccontata in prima persona, tuttavia si è dimostrata subito come un’idea rischiosa e ambiziosa. Tutti gli avvenimenti del libro sono filtrati dalle valutazioni emozionali e morali di Vincenzo e, di conseguenza, dalla sua storia. Dovevo conoscerlo alla perfezione per consentirgli di immettere una voce che fosse davvero la sua e non una mia interpretazione della stessa. L’ho seguito in ogni suo percorso, perché sapevo che prima o poi avrebbe mentito nel raccontarci la storia. Questo perché Vincenzo è pieno di difetti, soprattutto è incline a mentire; forse perché è costantemente alla ricerca di una dipendenza o di un’assoluzione. Ma è anche un uomo alla ricerca costante del sentimento che più di tutti lo atterrisce: l’amore.

È un libro politico, nel senso più alto del termine. Quanto vuoi che questa cosa emerga?

È un libro politico perché si pone l’obiettivo di raccontare una società senza alcun risvolto consolatorio o assolutorio. E la società di Napoli è un groviglio di culture, legami, ambizioni e tanto altro, in cui trovano quotidianamente spazio la detenzione, la miseria o l’illegalità. L’affiorare di questa realtà va ben al di là delle mie scelte. Se si affondano le mani in questa parte della città, con l’obiettivo di riportarle e non di edulcorarle, ci si imbatte in queste dinamiche.

A un certo punto scrivi che "Per capire il mondo devi capire le sue carceri"…

Il carcere è un orizzonte non troppo lontano per tanti ragazzi dei quartieri popolari. Siamo in un momento in cui il dibattito sul carcere è all’ordine del giorno. Per i miei protagonisti è fin troppo evidente come il carcere sia un’istituzione ormai completamente inutile e da superare. Questa convinzione nei quartieri popolari è senza dubbio acquisita per esperienza, semplicemente perché il carcere fallisce su tutto ciò che si prefissa: Non “rieduca” e non “reinserisce”, è solo un dispositivo vendicativo e punitivo. La frase riportata è di Giovanni, pronunciata molti anni addietro; probabilmente, se glielo chiedessimo ora, ci risponderebbe che per capire il mondo bisognerebbe capire non tanto le sue carceri, quanto le sue evasioni, il suo desiderio di libertà. Concetto che va ben oltre il dibattito sulla legittimità della pena.

Napoli – velata e non svelata – è una delle protagoniste del libro: una Napoli volgare, caotica, che puzza dei tanti negozi di cibo che aprono continuamente. Come è cambiata la città?

Come detto Napoli è al centro del romanzo. Potremmo dire che si tratti della vera protagonista della storia. È la sola città in cui potrei vivere senza desiderare perennemente di essere altrove, sebbene sia profondamente mutata negli ultimi anni. Nel romanzo questo cambiamento è presente, Vincenzo manca da Napoli da dieci e quando vi fa ritorno la trova irriconoscibile. Nonostante si trovi a poche centinaia di metri dalla abitazione della madre, non riesce a trovare la strada di casa. Pertanto, una città come questa, oggetto di queste trasformazioni specifiche, non è solo lo scenario adeguato per i “Santi”. Napoli, per i miei personaggi, è alternativamente un rimpianto, una motivazione, una giustificazione e un dolore. Napoli ha subito ogni sorta di dominazione e questa cosa ha fatto sì che scrivesse la sua Storia a partire dalle sue insurrezioni. Lo stesso vale per i protagonisti del mio romanzo, oppressi ogni giorno sia dalla Napoli da cartolina e cliché sia da quella che la rappresenta solo come un pericoloso teatro di guerra di camorra.

È un libro che affronta anche un problema non secondario della città, quello abitativo e tu lo affronti con una trovata originale.

Il desiderio di raccontare questi fenomeni è alla base della storia. La città, lo dicevo anche prima, è attraversata da cambiamenti importanti che la stanno modificando profondamente. È in atto un processo repentino di turistificazione che sta allontanando i residenti da quartieri del centro storico. I proprietari degli immobili hanno deciso di non rinnovare loro gli affitti e di trasformare gli appartamenti in strutture ricettive. Così, senza alcuna regolamentazione, interi quartieri hanno cominciato a rivolgersi esclusivamente ai turisti. Sono scomparse le botteghe artigianali storiche per far spazio esclusivamente a pizzetterie e friggitorie. Questi cambiamenti hanno gradualmente svuotato i quartieri, allontanando anche quelle figure storiche del panorama sociale in grado di tramandare i valori di una Napoli antica. Certo, restano i bei palazzi o monumenti, questo è innegabile. Ma una cosa sono i musei, in cui un’opera d’arte può essere esposta dietro una teca in qualsiasi parte del mondo indifferentemente, e un’altra sono le città. La differenza la fanno sempre le persone. Le pietre restano, nella loro meravigliosa imperturbabilità, ma l’anima la stiamo irrimediabilmente dissipando.

“Il degrado non è un sistema fognario inadeguato, e neanche le invasioni di blatte o topi che provano a infilarsi nei nostri terranei. Il degrado siamo noi”. Sembra un ritratto senza speranza. È veramente una città senza speranza?

Questa della speranza è una domanda che mi viene rivolta spesso. In realtà quella frase è un’amara osservazione di Vincenzo. La pronuncia quando si rende conto che, per le varie amministrazioni comunali, i quartieri popolari, e i rispettivi residenti, rappresentano solo un seccante problema. Problema che il più delle volte si prova ad affrontare con l’allontanamento degli abitanti in zone quanto più possibili marginali, al fine di farne ancora di più degli invisibili. Per tornare alla domanda, quindi, direi che finché i ceti deboli saranno visti solo come un problema di ordine pubblico da gestire, allora no, non c’è speranza né a Napoli né altrove.

A proposito di intento politico, c’è anche una importante componente femminista che si disvela man mano…

Tratteggiare i personaggi femminili è stata in assoluto la cosa più difficile. Ci tengo davvero che i miei protagonisti siano credibili, articolati e tridimensionali, lavoro moltissimo in questo senso. Per le donne c’è un’ulteriore, ovvia, difficoltà. Restituire la complessità del femminile, con i propri sogni, desideri, aspirazioni, ma anche con le oppressioni e i soprusi, è un lavoro davvero arduo per un uomo. Il rischio è di semplificare tutto, proporre, ancora una volta, il punto di vista maschile sulle donne. Ho studiato molto, ma soprattutto, mi sono confrontato a lungo con amiche e attiviste per provare a non rendere posticce le donne del romanzo. Mai come in questo caso, si è trattato di un lavoro collettivo. Aggiungo inoltre che benché in copertina compaiano tre uomini, il mio personaggio preferito è senza dubbio una donna…

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