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Donato Carrisi: “Nei thriller cerchiamo la verità, non puoi metterci fake news”

Si chiama “La casa senza ricordi” l’ultimo thriller di Donato Carrisi, scrittore italiano da milioni di copie, venduto in tutto il mondo. Ne ha parlato con Fanpage.it.
A cura di Francesco Raiola
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Donato Carrisi (ph Gianmarco Chieregato)
Donato Carrisi (ph Gianmarco Chieregato)

Il lettore di Donato Carrisi aveva già incontrato l'ipnotista Pietro Gerber ne "La casa delle voci", ma lo scrittore non ama definire il nuovo libro "La casa senza ricordi" come un sequel, perché ogni libro ha una vita a sé. Questa volta Gerber si trova a dover affrontare la ricomparsa improvvisa di un bambino, Nikolin, che qualche mese prima era scomparso nel nulla assieme alla madre. Eppure nel bambino c'è qualcosa che non va, è chiuso in sé, come se vivesse in un'altra dimensione e solo lui può capire cosa sta succedendo. Carrisi si conferma come uno dei migliori scrittori di thriller italiani, capace di giocarsela anche all'estero ad armi pari coi colleghi più rinomati, maneggiando perfettamente tutte le caratteristiche del genere, mantenendo una suspence continua, portando il lettore negli abissi della mente del bambino, ma anche del protagonista, alle prese con un orco, ma anche coi fantasmi di un vecchio caso e col disfacimento della sua famiglia. Fanpage.it lo ha intervistato per capire come nasce un'opera dello scrittore che, ha spiegato, prova su di sé ciò che avviene ai suoi personaggi.

Quando nasce il tuo amore per i thriller?

Scrivevo testi per il teatro ma nessuno mi prendeva sul serio, avevo finito Giurisprudenza, piangevo nel letto, mordevo il cuscino, dicevo che non volevo fare l'avvocato ma lo scrittore, il regista, però i testi mi ritornavano puntualmente indietro. Avevo un amico libraio a Martina Franca, di una libreria che non esiste più, che mi spacciava i libri e un giorno mi diede un libro, era il 1999, un romanzo di Michael Connelly, "Il ragno" che aveva appena vinto il Bancarella, mi disse che avrei dovuto leggerlo ma io risposi che il thriller non faceva per me, che ero un giallista, mi piaceva Simenon, che quella roba non mi appassionava. Insomma, questo libro era sulla pila dei libri sul comodino e tutte le volte che arrivava il suo turno lo ricacciavo sotto. Dopo l'ennesimo rifiuto di un mio testo, in una notte di disperazione, per cercare di addormentarmi accesi la luce per leggere qualcosa e il primo libro sulla pila era ancora Connelly e mi dissi che visto che nessuno voleva dare un'occasione a me, forse era il caso che io dessi un'occasione a lui. Lessi questo libro e cambiò la mia vita.

Proprio in ogni senso, no?

Sì, perché poi scrissi un soggetto per una serie televisiva che mi ha permesso di diventare uno sceneggiatore, si chiamava "Lobos", erano tre paginette. La cosa assurda è che quel soggetto, negli anni, è diventata una sceneggiatura di un film che nessuno ha voluto mai fare e che per ulteriore disperazione trasformai in un romanzo, "Il suggeritore", il mio primo libro, con cui vinsi il Bancarella dieci anni dopo Connelly. E questa è la mia storia col thriller.

Qual è il tuo rapporto con la paura?

Io sono uno che ha paura, gli horror non mi piacciono, trovo la paura troppo sfacciata, mi piacciono i thriller, mi piace la suspense, questo sì, è quello che semino nei miei romanzi. Anche "La casa senza ricordi", se vedi, non ha omicidi, non ha sangue o violenza, alla fine è tutto psicologico ed è questo che mi affascina. Ho un rapporto particolare con la paura, perché è un'emozione primaria, quella che assieme all'amore impari per prima. Sono le due emozioni che ti educano, le uniche che ti fanno battere il cuore: non ti batte il cuore per la rabbia, quella ti fa venire un infarto, le uniche emozioni sono quelle che, tra l'altro, drammaturgicamente seguono gli stessi schemi.

Possiamo definire quest'ultimo libro un sequel de "La casa delle voci"?

No, non è un seguito, più che altro tendo a scrivere libri gemelli, non sono mai stato un seriale né lo sarò. Se ho una storia molto forte o un personaggio pronto per raccontarlo, allora mi servo di quello stesso personaggio nella storia, ma non penso mai una storia relativamente al personaggio.

Quindi come nasce "La casa senza ricordi" e in che modo indaghi l'infanzia?

Avevo accumulato talmente tanto materiale, quando ho scritto "La casa delle voci", che mi dispiaceva lasciarlo lì in un cassetto: avevo tanta documentazione sull'ipnosi, anche perché ognuno dei miei romanzi nasce da almeno un paio di anni di ricerche. Per quanto riguarda l'infanzia, io non indago quella attuale, ma mi rivolgo all'infanzia che è nascosta in ciascun adulto, mentre ne "La casa delle voci" era una storia di bambini e fantasmi, perché avevo scoperto che molte persone che conoscevo avevano avuto un'esperienza paranormale e poi l'avevano rimossa, accantonata lì e in età adulta se l'erano quasi dimenticata, in questo caso volevo un po' rievocare l'orco cattivo: mi sono chiesto cosa potesse succedere se uno dei nostri mostri dell'infanzia riapparisse in età adulta. È un po' questo il mistero che si cela in questo libro.

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Tocchi tantissimi argomenti, dai problemi alimentari all’ipnosi, dal misticismo alla psicanalisi, i tribunali e chiaramente il rapporto dell’infanzia con l’età adulta… Come hai studiato per scrivere questo libro?

Parto dalla lettura dei giornali, ogni giorno dedico almeno un paio d'ore alla lettura dei quotidiani di tutto il mondo, poi vado in cerca anche sul web e quando le inchieste sono fatte bene ci sono risvolti paralleli che casomai il giornalismo non racconta e che per uno scrittore diventano un tesoro. Raccolto questo materiale comincia l'opera di consulenza, mi rivolgo a una serie di professionisti, li seleziono, parto con le interviste e con le visite ai luoghi in cui ho deciso di ambientare il romanzo, è un'opera di costruzione di cui l'opera di scrittura è l'ultima cosa, e la rimando il più possibile. L'appuntamento con la pagina bianca va rimandata il più possibile, non bisogna avere fretta.

È quasi un lavoro di ricerca per un saggio che per un romanzo…

Sai cosa? Il lettore di thriller è scafato, ti sgama subito se dici una sciocchezza, quindi tutto deve essere motivato bene. Una cosa di cui mi sono reso conto in tempo è che soprattutto i lettori all'estero hanno bisogno del conforto della verità. Non puoi mettere fake news in un romanzo thriller, non puoi inventarti cose in maniera clamorosa, a meno che non lo dichiari, non puoi spacciare per verità cose che hai inventato di sana pianta.

Hai studiato bene anche l'ipnosi, quindi?

Sì, l'ipnosi clinica che si distingue da quella regressiva, tutte le varie forme di ipnosi. L'unica cosa che ho omesso – una licenza che mi sono permesso – è che ci sono soggetti più suscettibili e altri meno, nel senso che l'ipnotista fa più fatica a trovare una strada per entrare nella loro coscienza o nella subcoscienza.

Nel romanzo ci sono varie linee narrative, quelle come le porti avanti?

C'è un'architettura che costruisci prima di cominciare: un romanzo thriller comincia sempre dalla fine, perché se non hai un finale potente è inutile anche affrontarlo, il viaggio. Poi torni indietro e costruisci la struttura, io mi diverto molto a farlo, anzi forse è la cosa che mi riesce più facile. Questa architettura poi, può essere anche smentita, mentre stai costruendo la cattedrale ti accorgi che la forma più giusta è un'altra, quindi cambi, torni indietro. Io ho una serie di amici scrittori che si muovono in vari modi: Jeffrey Deaver è quello rigoroso, metodico, preciso in tutto ciò che fa; Ken Follett fa un grande studio e poi riversa il romanzo sulla pagina, dopo ci torna, lo costruisce di nuovo ed è bello confrontarsi anche su questi metodi di scrittura; Michael Connelly è un altro che segue una spia, che ha in mente un certo tipo di procedimento, tutti seguiamo delle regole, questo è normale. La prima è che il cattivo fa la storia, se hai un buono ti serve a poco se non hai il cattivo giusto.

Ha imparato qualcosa studiando per i tuoi libri?

Ho imparato tantissime cose, perché mi cimento io per primo: per far fare una cosa a un personaggio devo averla fatta io, questo è quasi indispensabile a volte, anche per essere fedeli a quel racconto.

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Ti sei fatto ipnotizzare, quindi?

Sì, sì. Ero convinto che fosse una ciarlataneria, mi sono sottoposto a una seduta di ipnosi da parte di una bravissima ipnotista di Milano che mi portò nel suo studio: era un pomeriggio di inizio estate, era una bella giornata, io steso sul lettino, lei che mi parlava e io perfettamente cosciente, avevo il naso che mi prudeva ma pensai che se me lo fossi grattato lei avrebbe capito che non ero in trance. Pensavo: "Ma quando finisce ‘sta cosa?", e così dopo mezz'ora m'ha risvegliato, solo che aprendo gli occhi mi resi conto che fuori era buio, e non era passata mezz'ora ma tre ore. In quel momento ho capito che l'ipnosi non è la perdita di coscienza, tu non affidi la tua coscienza a qualcun altro, ma perdi il senso della realtà e fai un viaggio dentro te stesso. Poi l'ho fatto altre volte, non con lo stesso effetto, perché conoscevo questo trucco, ad esempio ho provato quella regressiva…

Mettersi in giorno…

Ma sì, è divertente, mi piace andare a parlare con i medium, per esempio: nel Suggeritore c'è una medium che ho incontrato realmente nella vita. Non è una suora ma fa la medium e mi ha spiegato come funziona. Mi ha detto che non parla con gli spiriti e i fantasmi, ma vede delle energie, come se fossero imprigionate nella realtà: quando c'è un fatto di sangue, mi ha detto, c'è un tale sprigionamento di energia che riesce a capirne la fonte, ma questo non vuol dire parlare coi morti.

E Lavinia (una bambina con problemi alimentari ipnotizzata dal protagonista, ndr), l'hai mai incontrata?

Certo, anche Lavinia, quel caso mi è stato raccontato dall'ipnotista che mi ha fatto da consulente: io ovviamente ho cambiato il più possibile gli elementi per non renderla riconoscibile ma è clamorosa questa cosa, era una storia molto potente, mi piaceva molto.

Rapportarsi al mercato estero com'è per uno che come te ha una platea enorme?

Io all'estero porto la mia italianità, che sembra una cosa scontata ma non lo è. L'Italia, negli ultimi decenni, è sempre stata raccontata agli stranieri dagli stranieri: ci sono tanti inglesi che vengono ad ambientare i loro romanzi in Italia e casomai questi romanzi neanche sono pubblicati da noi, tranne qualche caso, pensa a Twilight o Dan Brown. Gli italiani però non lo fanno, preferiscono raccontare il microcosmo, la provincia, ed è difficile portarlo all'estero. Quello che per noi è un patrimonio – e lo è – può diventare un problema quando vogliamo esportarlo, perché non abbiamo una cultura dell'esportazione. Ti faccio un esempio, se Cormac McCarthy ti racconta il piccolo paesino del West, tu non solo vedi il paesino ma conosci tutti gli abitanti, perché c'è una cultura d'esportazione, un modello culturale che è stato esportato, noi no, ce lo raccontiamo tra noi: chissà perché il personaggio italiano più famoso all'estero è ancora Pinocchio.

La casa senza ricordi può diventare un film?

Sì, perché tutti i miei libri cominciano da una sceneggiatura: sembra difficile in Italia da capire, qui da noi o sei una cosa o un'altra, ed è strano. All'estero non la vivo in questo modo, quindi quando mi chiedono se mi sento più regista o scrittore mi dico che sono un narratore, mi piace raccontare storie: sono diventato regista non perché fossi uno scrittore ma perché per anni mi sono fatto il culo sul set. La prima volta che ho messo piede sul set come sceneggiatore è stato nel 1999 e per i primi tre giorni ho portato la pizza, mi avevano scambiato per un runner, poi hanno capito che ero uno sceneggiatore e mi hanno messo una sedia accanto al regista e io mi sono detto che erano pazzi, anche perché avevo imparato molto di più portando la pizza.

Può essere che sia ancora per quella famosa distinzione tra letterarietà e il pregiudizio sul genere?

Guarda penso che il pregiudizio lo stiamo superando, per fortuna. Io mi occupo di thriller e ti assicuro che ce ne sono tanti che non sono dichiarati, anche a livello internazionale: pensa a "L'ombra del vento" di Zafon, quello è un thriller, poi non lo dichiari perché quella parola fa paura. Il primo thriller italiano l'ha scritto Umberto Eco, "Il nome della rosa", senza il quale non avremmo avuto Dan Brown.

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