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Opinioni

Accordo storico sul riscaldamento globale a Parigi: “Sembrava impossibile”

L’accordo per fermare il riscaldamento globale c’è. Ed è coraggioso: ferma a 1.5 gradi l’aumento di temperatura. Ma è solo un primo passo. E non si parla di diritti umani.
A cura di Michele Azzu
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L’accordo per ridurre le emissioni di gas CO2 e fermare l’avanzare del riscaldamento globale finalmente c’è. È arrivata la conferma dell'assemblea plenaria con Al Gore seduto in prima fila – il testo è stato reso disponibile alle 14.00 ma sono occorse numerose correzioni ad errori del testo– si può dire ora che il summit di Parigi è stato un successo.

Perché, pur con tutti i problemi, è venuto fuori un accordo coraggioso. “È la svolta definitiva contro i cambiamenti climatici fuori controllo”, commenta Nicholas Stern del “Grantham Research Institute” sui cambiamenti climatici. Un trattato storico che impegna 200 paesi a ridurre le emissioni di CO2 imponendo limiti comuni, monitoraggi e un obiettivo ambizioso: fermare l’aumento della temperatura del pianeta a 1.5° gradi centigradi.

Alla conferenza stampa di mezzogiorno l’emozione è palpabile, mentre parlano il ministro degli esteri francese Laurent Fabius – che si è speso moltissimo nelle trattative – il presidente della repubblica Francois Hollande e il segretario dell’ONU Ban Ki Moon. Si applaude tanto. Fabius cita perfino Mandela: “Sembra sempre impossibile fino a un momento prima. Ma il successo si costruisce collettivamente”. E il 2015 è stato un anno importante per riconoscere il problema riscaldamento globale.

L'emozione all'assemblea plenaria la sera è ancora maggiore. Di azioni collettive c’è stato un gran bisogno per convincere 200 paesi a firmare un unico accordo vincolante sul clima, con tutti i problemi, le differenze, e i veti di Cina, India e Arabia Saudita. Un’impresa quasi impossibile. In cui si sono rivelati decisivi il lavoro svolto dalla diplomazia americana, da quella francese, e di altri leader agguerriti ma poco conosciuti: Nigeria, Grenada e le isola polinesiane di Palau.

Alla conferenza stampa Fabius ha spiegato che quello raggiunto è un accordo all’insegna dell’ambizione, della trasparenza e del compromesso (le nuove libertà, uguaglianza e fraternità di questa Francia del clima 2015). E aggiunge: “I nostri figli, un domani, non ci capiranno e soprattutto non ci perdoneranno”, se non rispetteremo questo accordo.

Ma a testo già rilasciato, il trattato sembrava ancora non essere chiuso del tutto. Tanto che il presidente Hollande, nel suo intervento, ha giocato anche la carta degli attentati di Parigi: “Sarebbe un grande orgoglio questo accordo per Parigi, perché oggi è quasi un mese dagli attentati”. E allora, cosa c’è nel primo accordo al mondo che vincola i paesi a ridurre le emissioni per fermare i danni causati dal riscaldamento globale? Vediamo i punti fondamentali:

  • L’impegno a mantenere l’aumento della temperatura entro 1.5 gradi centigradi. Questo limite è molto più basso dei 2 gradi su cui si erano, inizialmente, concentrate le trattative.
  • Un monitoraggio e una revisione degli obiettivi ogni 5 anni.
  • Un meccanismo di compensazioni per riparare alle perdite subite dai paesi colpiti dal riscaldamento globale, che però non include un giudizio di “responsabilità” – che non piace agli USA perché potrebbe portare a cause legali degli stati contro le aziende americane (che inquinano).

Nel frattempo per le strade di Parigi vanno in scena le manifestazioni, che due settimane fa, a inizio conferenza, erano state annullate per via delle misure antiterrorismo – suscitando l’indignazione degli organizzatori e di numerosi intellettuali, fra cui la saggista canadese Naomi Klein. Oggi circa 10mila persone vestite di rosso si sono riversate all’Arco di Trionfo e sotto la Torre Eiffel.

Nei giorni precedenti tanti passaggi avevano fatto sperare per una buona risoluzione. “Le condizioni non sono mai state migliori”, aveva affermato il ministro francese Fabius. Inoltre, il Brasile aveva aderito alla “High Ambition Coalition”, una sigla nata pochi giorni fa in cui rientrano i paesi che spingono per una riduzione delle emissioni più decisa: Africa, Caraibi, Unione Europea e USA. L’entrata del Brasile aveva isolato maggiormente le posizioni contrarie di Cina e India.

Gli obiettivi di questa coalizione? Rendere legalmente vincolante il trattato di Parigi. E poi, stabilire obiettivi di lungo periodo nella riduzione delle emissioni, e introdurre sistemi di monitoraggio e controllo nei paesi, ogni 5 anni, creare un sistema unificato. Questi punti sembrano aver prevalso nella versione finale dell’accordo, anche se molto resta ancora da vedere. Come alcuni dei punti più critici di questi giorni:

  • I finanziamenti: diversi osservatori delle Organizzazioni Non Profit hanno notato un atteggiamento rigido sul fronte dei finanziamenti. In particolare per le nazioni povere e in via di sviluppo. Si parla di un fondo di 100 miliardi di dollari all’anno dal 2020 destinato a crescere nel tempo.
  • La differenziazione: è un punto cruciale, perché mentre Europa e USA insistono con la Cina perché si stabilisca un unico sistema di misurazione, valutazione e verifica, c’è chi chiede parametri diversi a seconda della ricchezza e dello sviluppo delle nazioni. Una differenziazione, in questo senso, andrebbe a favorire le posizioni di Cina e India, e minerebbe fortemente il carattere vincolante dell’accordo.
  • La revisione degli obiettivi: si punta a un monitoraggio costante e comune, unificato, con nuovi summit almeno ogni 5 anni. Altrimenti ogni accordo è vano, anche perché fra pochi anni si profilerà l’esigenza di dover disinvestire pensantemente dal combustibile fossile.

Ciò che manca davvero a questo accordo è il passaggio sui disinvestimenti dai combustibili fossili entro il 2050, che in una versione precedente c’era. Un’accordo sul riscaldamento globale non può fare a meno di questo, e soprattutto il limite di 1.5 gradi centigradi imposto oggi a Parigi non può fare a meno, per essere realizzato, di forti disinvestimenti dal petrolio nei prossimi anni. “L’accordo segna la fine dei combustibili fossili”, dice May Boeve, direttore di 350.org, l’associazione ambientalista che ha organizzato le manifestazioni a Parigi. “Il testo dovrebbe mandare un forte segnale a chi investe nei combustibili fossili: disinvestite ora”.

A mancare sono anche le parti del testo sulle popolazioni colpite. “Non si parla di diritti delle popolazioni indigene”, fa notare Boeve. Inoltre, nell’accordo non c’è alcun riferimento ai “rifugiati del clima”, come ci si è riferiti spesso in merito alle popolazioni che migrano per cause legate alle conseguenze del riscaldamento globale (tra questi i siriani che attraversano il Mediterraneo, secondo il Segretario di Stato americano John Kerry).

I dubbi sono tanti, la strada ancora lunga. Cina e India, rispetteranno davvero questo accordo? E in che maniera i finanziamenti si tradurranno in soldi veri per i paesi più colpiti? Europa, Stati Uniti, Australia, davvero accetteranno questi vincoli, o farà questo trattato al fine dei precedenti? Ci sono poi i dubbi della comunità scientifica, che evidenziano i disastri già in atto. Johan Rockstrom, direttore dello “Stockholm Resilience Center” sul clima fa notare come gli impegni attuali degli stati portino molto oltre un aumento della temperatura di 2 gradi nei prossimi anni.

Insomma, la strada per fermare il riscaldamento globale e per disinvestire dai combustibili fossili è appena iniziata. Ma quello di Parigi rimane un accordo coraggioso. Perché per la prima volta impone limiti comuni sull’aumento della temperatura. Impartisce la strada per disinvestire da gas e petrolio. Ed è figlio di un enorme sforzo collettivo fra nazioni ricche e povere, oriente ed occidente, nord e sud del mondo.

“Sono state le trattative più difficli a cui abbia mai preso parte”, ha affermato il segretario della nazioni unite Ban Ki Moon. E, come ha detto il ministro Fabius citando Nelson Mandela, “Sembrava impossibile finché non è stato raggiunto”.

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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