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Mondiale rugby: Australia-Nuova Zelanda, più di una finale

Gli australiani e la tirannia della distanza. I neozelandesi e un’identità plasmata da dubbi e da un certo senso di inferiorità. Storie diverse, un punto in comune: il rugby come riscatto. Oggi c’è da scrivere la storia: chi sarà la prima nazionale con tre titoli mondiali?
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Da un secolo, si dividono il dominio del Nuovo Continente, nel regno Down Under della palla ovale. La 179ma sfida fra Australia e Nuova Zelanda, 155 se non si contano i match fino al 1930, che gli All Blacks hanno giocato con un New Zealand XV che negava l’ufficialità al match, sarà la prima finale Mondiale tutta oceanica di sempre. Sarà la terza sfida iridata, ma in palio c'è molto più del primato continentale. C'è un posto nella storia, lo status di prima nazionale a vincere il Mondiale per tre volte. E l'affermazione di una superiorità che travalica lo sport. Perché il rugby si è fatto strumento della formazione di un carattere, di un'identità nazionale. E quella di oggi è molto più di una finale. Perché questo è molto più di un gioco.

All Blacks: gli Originals – Nel diciannovesimo secolo, né la musica, né l'arte, né la letteratura hanno regalato una figura di rilievo internazionale alla Nuova Zelanda, che ha votato per cambiare bandiera lo scorso luglio. Più della cultura, però, poté lo sport e il tour degli “Originals” del 1905 in Europa e in America: 35 partite, 34 vittorie, 976 punti all'attivo e solo 59 concessi. È un cambio di prospettiva per il Commonwealth, è la periferia del mondo che si sposta al centro della geografia sportiva, e mai più perdera quello status di eccellenza atletica associata agli All Blacks. “Il tour del 1905 è stato parte integrante della composizione di un ethos nazionale in cui il rugby è diventato l'elemento dominante nella formulazione di un'identità maschile per tutta la nazione” scrive lo storico Nauright. “Abbiamo avuto un successo immediato nel rugby, in un momento in cui la costruzione della nazione era in una fase delicata” sottolinea il professor Toni Bruce dell'università di Auckland, il principale sociologo dello sport della Nuova Zelanda. “In quel 1905, la Gran Bretagna era la potenza guida del mondo, e le nostre vittorie sono state usate dai politici per promuovere lo stile di vita Kiwi. Allora la nostra era una cultura molto maschile, perciò non è una sorpresa che il rugby si sia diffuso così tanto, soprattutto nelle piccole comunità”. Lo sport ha riempito un vuoto, ha colmato quella che Bruce ha definito “l'insicurezza fondamentale nell'identità nazionale neozelandese. Siamo sempre alla ricerca del nostro posto nel mondo, e nello sport abbiamo trovato uno dei pochi campi in cui riusciamo a eccellere”.

Come una religione – Per il professor Peter Lineham, storico della religione della Massey University, il rugby è ormai il culto moderno neozelandese. “Per molti, questo sport dà senso alla vita, porta con sé un valore che non può sostenere, che lo sport non è designato a reggere. Diventa un sostituto della religione, il culto per figure di salvatori come Jonah Lomu, di eroi tipici di una società coloniale. Uomini normali, che sudano, lavorano duro e camboano il mondo".

Australia: la forza dell'identità – L'affermazione dell'identità, il riscatto di una minoranza di successo è già nella colonna sonora degli All Blacks, il canto di battaglia che accompagna l'Haka, la danza maori. Racconta il mito che Tama Nui Tora, il dio Sole, avesse due mogli: una d'estate, Hine Raumati, e l'altra per l'inverno, Hine Takurua. Dalla prima nacque un figlio, Tane Rore, la cui danza rappresentava il tremore dell'aria nei giorni di fuoco d'estate. Dopo una disputa durata 160 anni, il governo di Wellington ha deciso di risarcire (circa 120 milioni di euro) e restituire i diritti della danza di guerra agli eredi dei nativi delle isole del Pacifico che l'hanno creata quella danza avevano creato. Quella a cui gli azzurri voltarono le spalle prima del match dei Mondiali, l'8 settembre 2007 a Marsiglia, che alterna l'iniziale «Ka Mate-Ka Mate», «Io muoio-Io muoio», con l'appassionato «Ka Ora-Ka Ora», «Io vivo – Io vivo». Peraltro, la questione del riconoscimento di questa popolazione autoctona, al di fuori dei ristretti confini dello sport, ha raggiunto un nuovo livello di consapevolezza proprio attraverso il rugby. Le proteste, le più violente nella storia del Paese, che hanno accompagnato il tour degli Springboks del 1981, in violazione del divieto di incontri sportivi con il Sudafrica per via del regime di apartheid, hanno smentito l'antica convinzione di generazioni di neozelandesi convinti che lì le relazioni fra le razze fossero le migliori possibili. Le dimostrazioni fanno emergere il conflitto con i Maori, che chiedono alla maggioranza dei neozelandesi: "Protestate per le discriminazioni in Sudafrica, ma che fate per quelle a casa vostra?".

Molteplicità nell'unità – Di molteplici facce e provenienze si nutre anche l'humus etnico d'Australia. E la squadra di coach Michael Cheika, ex imprenditore della moda figlio di un immigrato libanese, sta cambiando anche la percezione comune dei Wallabies. “We've got the jokers, the lovers and the fighters”, “abbiamo chi scherza, chi si appassiona, chi combatte”. C'è Scott Fardy, che era a Kamaishi il 29 marzo 2011, il giorno dello Tsunami, e ha rifiutato di farsi evacuare per aiutare le vittime: da allora ha giurato che non avrebbe sprecato un solo momento della sua vita. C'è Will Genia, che è nato in Papua Nuova Guinea, e David Pocock che arriva dallo Zimbabwe, gestisce un'organizzazione benefica per sostenere le aree più povere della sua nazione, sostiene le unioni civili e si è fatto arrestare con la moglie perché si sono incatenati a una macchina scavatrice per protestare contro l'apertura di una miniera in una foresta di interesse ambientale.

Tirannia della distanza – Secondo lo storico Geoffrey Blainey, è la “tirannia della distanza” che ha forgiato il particolare rapporto fra gli australiani e lo sport, parte non secondaria del bagaglio dei migranti, unico elemento di connessione con la madrepatria britannica prima di Internet e dei voli low cost. E quando per la prima volta la nazionale di cricket batte l'Inghilterra al The Oval di Londra nel 1882, e di fatto nasce la leggenda di una delle più antiche competizioni sportive, “The Ashes”, l'identità nazionale fa un immediato salto in avanti. Gli atleti, ancora fieramente pro-Impero britannico, stabiliscono un senso di parità, dunque di rivalità, e superano i pregiudizi negativi su una supposta inferiorità degli isolani che arrivano dall'altra parte del mondo.

Perché Wallabies – Un fiero senso di appartenenza che si trasmette, si comunica già dalla scelta del soprannome della nazionale, Wallabies. Scelto, sì, attraverso un sondaggio su un quotidiano. All'inizio, vengono preferiti Kangaroos, Waratah (un fiore il cui nome in aborigeno significa bello) o Rabbits, conigli. Ma un lettore australiano del Daily Mail di Londra che si firma con lo pseudonimo Adelaide sottolinea che “il coniglio non è autoctono, è un abominio, il solo nominarlo fa venire in mente la carne in scatola. Suggerirei il mome di Wallabies”. Il Wallaby è infatti un marsupiale della famiglia dei canguri, “un animale elegante, agile e indigeno, che possiede una grandissima velocità” scrive ancora il Daily Mail. Un manifesto di una nazione. In più, nello slang australiano, essere “on the wallaby (track)” significa vagare da un posto all'altro, spesso in cerca di lavoro. La forma, dunque, diventa sostanza. Il mezzo si fa messaggio. E le sfumature, più di cinquanta, che passano dal nero al gialloverde, raccontano un secolo di storia e anticipano il futuro. “Non li chiamerò Wallabies, ma solo Australia”, ha detto Dan Carter, il mediano neozelandese che si nutre di record, che nel 2011 c'era ma non giocò la finale per infortunio. È la risposta al commento tagliente di Chaika. “Non chiamerò All Blacks i nostri avversari: questa è una battaglia fra nazioni, e non fra marchi”.

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