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Blocco 181 su Sky, la recensione: la serie con Salmo non adotta gli orfani di Gomorra

Blocco 181 su Sky e Now è un gigantesco vorrei ma non posso che, nonostante la splendida fotografia, di criminale ha solo la sceneggiatura. Peccato.
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A cura di Grazia Sambruna
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Blocco 181 ha debuttato su Sky e Now con i suoi due primi episodi venerdì 20 maggio. La serie si compone in totale di otto puntate e didascalica tanto quanto le informazioni che avete letto fin qui è, purtroppo, la sua sceneggiatura. Il progetto, preannunciato da tanto hype che a Milano ne è stata allestita pure una mostra fotografica temporanea in onore del debutto, prometteva di far addentrare lo spettatore nella periferia del capoluogo meneghino tra Barona e Giambellino, ma tutto ciò che siamo riusciti a comprendere delle lotte intestine tra gang rivali è che non siano così diverse da una rissosa assemblea di condominio con problematiche tra cui il cane del vicino che piscia sulle scale dello stabile (questa scena esiste, è nella prima puntata) e il divieto assoluto di grigliare in cortile per evitare schiamazzi che disturberebbero la pubblica quiete (idem). Il tutto discusso tra gente con molti tatuaggi. E, per la maggior parte del tempo, in spagnolo.

Forse perché reduci dalla sbornia di irresistibile violenza gratuita dei primi cinque episodi di Bang Bang Baby (Prime Video), Blocco 181 appare come un gigantesco, rutilante “vorrei ma non posso”. Eppure Sky, potrebbe. Lo ha ben dimostrato con progetti seriali curatissimi e dalla sceneggiatura efferata: su tutti, citiamo il purtroppo sottovalutatissimo in patria Anna, dall’omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti.

Il primo ostacolo è quello linguistico: per tre quarti del tempo, la puntata d’esordio è recitata completamente in spagnolo con i personaggi della gang sudamericana, la Misa, sempre intenti a grigliare contro il volere della cricca di italiani che controlla il quartiere mentre discorrono di droga, ma soprattutto dei fatti loro, in lingua madre. Così lo spettatore si ritrova “costretto” a leggere lo schermo per una buona quarantina di minuti, pena non poter essere coinvolto nelle dinamiche di personaggi che ancora nemmeno conosce.

Un piccolo grande “sacrificio” a cui le serie americane ci hanno ben abituati, ma che rischia di diventare invalidante ostacolo per un prodotto italiano: durante la visione di Blocco 181 è praticamente impossibile cenare, stirare, levarsi le doppie punte o fare una qualunque attività che distolga l’attenzione dal testo scritto. A questo punto, perché non dedicarsi a un buon libro? Come corso interattivo di spagnolo, comunque, la serie si rivela un’ottima alleata, santa madrugada!

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Se i dialoghi, dunque, sono come un loop infernale di Obsesión degli Aventura, anche i loro contenuti non è che si discostino più di tanto da quella vecchia hit estiva: nonostante l’inserto di qualche fatterello legato allo spaccio e a piccoli reati a esso connessi, l’amore è ancora al centro delle vicende con un triangolo tra Bea, interpretata dall’attrice Laura Osma già vista in El Chapo e alla sua prima esperienza tv “italiana”, e due ceffi che appartengono a gang avversarie, tali Ludo e Mahdi in grado di dimostrare un tasso di rivalità che manco Red e Toby. Tasso di rivalità comunque messo quasi immediatamente da parte perché l’amore vince sempre sulla coca e sull’odio e produce giusto un paio di limoni a tre nella notte di una Milano violenta e criminale solo per posa.

Il personaggio di Bea incarna il solito concept di empowerment femminile di cui ormai abbiamo pieni i cuori: unica donna della Misa, famiglia delinquenziale composta prevalentemente da maschi che vorrebbero essere alfa, lei è la sola a saperci fare col crimine, ma il merito non le viene riconosciuto, per dirla parafrasando Emanuela Fanelli, “Perché? Perché è una donna?”. Sì, per questo. Se la dinamica è perfettamente credibile, rappresentare tutti i maschi della gang come inetti e rosiconi nei confronti della donzella risulta però una forzatura: dov’erano mentre, come lei, la famiglia li cresceva a pane e panetti di droga? Possibile mai che non abbiano appreso alcunché da tutta questa stupefacente educazione?

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Snervante almeno quanto il bassissimo tasso di violenza che la serie, nonostante le premesse, propone: dieci sprangate in pieno volto, valgono una pozzetta di sangue dimensione francobollo e perfettamente Instagram aesthetic. Sia mai rovinare la fotografia con uno sprizzo di realistico gore. Non per niente il regista Giuseppe Capotondi, prima dei suoi lungometraggi e della regia di quattro episodi di Suburra – La Serie, ha passato dieci anni di carriera a girare videoclip di artisti italiani (tra cui Zucchero, Vasco, Ligabue…) e internazionali (dall’ex Spice Girl Emma Bunton a Natalie Imbruglia passando per gli Skunk Anansie).

Il videoclip è il genere per antonomasia in cui i suoi protagonisti devono sembrare fighi, senza necessariamente esserlo. E lo devono sembrare solo per qualche, incisivo minuto dalla fotografia patinatissima. Ed ecco che ci siamo. Anche se ciò non spiega come mai perfino le pochissime scene di agguati e assalti siano costantemente ricoperte da una fitta coltre di fumo (che fuoriesce dalle marmitte dei motorini con cui la Misa è solita spostarsi). Show, don’t smoke.

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Ma quindi Salmo? Salmo c’è, però si vede poco. Interpreta il ruolo del cattivissimo Snake. Il rapper che di questa serie è anche produttore creativo e supervisore musicale, ha la faccia che imbruttisce ma mai quanto la sua recitazione perché purtroppo il nostro non risulta essere in grado di scandire, come ammesso da lui candidamente.

Il racconto di una Milano che vuole uscire dal cliché della città fighetta per eccellenza, non fa che alimentarne il luogo comune. E il problema non è Milano, come ben dimostra la serie Monterossi (Prime Video) e il suo altissimo tasso di crimine maleducato, sprezzante e perfetto. Il problema è che qui per asciugare le lacrime degli orfani di Gomorra, è stato ricreato un quartiere periferico brutale, a confronto, quanto la cucciolata di un gattile di Quarto Oggiaro.

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Sto scrivendo. Perennemente in attesa che il sollevamento di questioni venga riconosciuto come disciplina olimpica.
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