Marco Bonini su Tutto quello che ho 2: “La storia non avrebbe intensità. Spesso la gente non ha capito chi fossi”

Nella fiction di Canale 5, Tutto quello che ho, arrivata alla sua ultima puntata, Marco Bonini interpreta Matteo Santovito, un poliziotto ma soprattutto un padre che indaga sulla scomparsa della figlia, insieme e spesso in contrasto con la moglie Lavinia, interpretata da Vanessa Incontrada. Un ruolo drammatico, intenso, che arriva dopo anni di carriera in cui l'attore romano è riuscito a destreggiarsi tra personaggi di vario genere, ruoli per i quali si è mosso tra piccolo e grande schermo, senza dimenticare il teatro: "Mi sono sempre voluto muovere, anche se spesso la gente non ha capito chi fossi o cosa stessi facendo". A Fanpage.it, Bonini racconta come grazie al suo mestiere si sia posto domande anche sul suo modo di percepire, vivere ed entrare nelle emozioni, ma soprattutto di decodificarle, rendendole fruibili anche per chi non è avvezzo a consultare un vocabolario emotivo. Un'esplorazione di sé portata avanti anche con la scrittura, come dimostra il suo quarto romanzo, L'amorevole grado di separazione.
Tutto quello che ho è stata premiata ricevendo un forte riscontro da parte del pubblico. A parte la storia particolarmente intensa, quali sono stati gli elementi attrattativi secondo te?
Sono tantissimi gli elementi che danno forza a questo progetto, a partire da Vanessa, riesce a catalizzare tutti coloro che hanno lavorato alla serie. Ha una naturalezza, una verità, un'immediatezza molto spiccata che ha permesso di creare un team immediato e sincero. È venuto fuori un prodotto credibile, molto umano nel quale le persone si sono riconosciute, ed è sempre quella la chiave, il pubblico vuole riconoscersi in ciò che vede.

Tu interpreti Matteo, poliziotto, nonché papà di Camilla. Da padre di due figli, quanto del tuo trascorso hai messo a servizio di questo personaggio per interpretarlo?
Credo sia stato chiamato esattamente per questo. Mi hanno chiesto di non puntare sul poliziotto, che era poi l'aspetto più scritto in sceneggiatura, ma di calcare molto sulla figura del padre ed è quello che ho cercato di fare. La mia biografia mi ha aiutato, avevo un sacco di ingredienti pronti nel frigorifero per cucinare. Ho due figli, un maschio e una femmina, più o meno della stessa età dei ragazzi della fiction, e questo elemento ha accomunato tutto il team creativo, ognuno di noi ha messo il proprio contributo di verità.
La fiction è arrivata alla sua ultima puntata, conoscendo la sceneggiatura e visto il successo della serie, pensi ci possano essere i margini per una seconda stagione?
I limiti della fantasia sono infiniti, c'è sempre la possibilità di inventare qualcosa. Io interpreto un poliziotto, Vanessa un avvocato, basterebbe trovare un altro caso, magari stavolta non personale, perché altrimenti viene sterminata una famiglia. Però, ecco, sarebbe ripetitivo, ma la storia credo che al momento non si presti, perché l'intensità è data dal fatto che insieme, poliziotto e avvocato, indagano sulla figlia. Un'altra trama la smonterebbe.

Sei uno di quegli attori che ha fatto tanta, ma tanta gavetta nella sua carriera. In cosa pensi ti abbia plasmato questo percorso, magari anche faticoso?
E ancora la sto facendo (la gavetta ndr.). Quello dell'artista è un mestiere meraviglioso, non lo cambierei con null'altro al mondo, sebbene sia un mestiere micidiale, perché è instabile e aggressivo da un punto di vista psicologico. Quando va bene tutti ti osannano, quando va male ti seppelliscono. Nonostante questo è un mestiere bellissimo perché è un'indagine su se stessi che inizia e non finisce mai, ogni personaggio è una scoperta di un qualcosa che non sapevi di avere o che approfondisci. Ogni ruolo mi ha arricchito e mi ha cambiato. Ma c'è un elemento su sui mi sono soffermato in questa ricerca.
Quale sarebbe?
Il tema dell'emotività maschile. È ancora molto acerba, ha bisogno di cura per essere coltivata, va da sé che essendo l'uomo immaturo dal punto di vista emotivo lo sarà anche l'attore. Spesso mi sono trovato a parlare con colleghi, con i quali condividevamo una certa invidia rispetto alla capacità e all'agilità di accesso all'emozione delle nostre colleghe che, magari, nella loro vita sono abituate a frequentare le loro sensazioni. L'ho visto anche girando questa serie, dove Vanessa entrava in un'emozione con velocità, io dovevo partire dal giorno per preparami. Da anni mi propongo di far crescere e avere dimestichezza con le mie emozioni che per genere, per cultura e per estrazione si ha difficoltà ad esporre. È il tema dell'attualità.
E credi che la tanto citata "educazione sentimentale" possa essere una chiave per insegnare agli uomini, e quindi agli attori, a riconoscere le proprie emozioni?
Le emozioni sono una lingua che va imparata, frequentata ed esercitata. È una lingua che alle donne è stata insegnata da millenni, anche in maniera coatta, ma la parlano da sempre e la capacità di parlare la lingua delle emozioni è gratificante. Nello stereotipo patriarcale più e meglio parli quella lingua, più sei donna, per l'uomo è l'opposto, meno la parla più è uomo. Abbiamo un doppio lavoro da fare: imparare una lingua che ci è stato negato di apprendere, superare l'onta sociale e imparare, fattivamente, a parlarla.
Forse è per questo bisogno di introspezione, di entrare in contatto con la tua parte emotiva che ti sei avvicinato alla scrittura?
Sono vere entrambe le cose. La scrittura è un atto meditativo, di sprofondamento dentro se stessi, ed è utile perché vai a cercare le tue emozioni, però si tratta sempre di emozioni plasticate, se vogliamo anche infantili, la competenza emotiva è un elemento relazionale, una ricezione dall'esterno. Le emozioni sono un'interfaccia con il mondo, ci si emoziona quando si viene esposti ad una situazione o una persona. Quando si scrive le emozioni sono perlopiù fantasie, proiezioni.
E quindi cosa manca per compensare questo gap tra generi?
Il passaggio che manca, che crea tantissima difficoltà nella relazione tra maschi e femmine, sta nelle lenti con cui noi leggiamo e percepiamo anche la relazione. L'uomo sente tantissimo, ma il problema è che le donne parlano una lingua relazionale, vogliono il contatto, che è quello che a noi manca perché ce l'hanno negato. Magari un uomo si chiede "La amo così tanto, perché non lo capisce?", la risposta è perché non glielo dimostri e non glielo dimostri perché non stai con lei.
Un tema che in qualche modo affronti anche nel tuo ultimo libro, L'amorevole grado di separazione.
È incentrato sull'equilibrio di identità e differenza. Le persone tendono a voler ritrovare ciò che già conoscono, ma in realtà in qualsiasi rapporto relazionale bisognerebbe trovare proprio quell'equilibrio. Nel libro io parlo di una coppia, un uomo e una donna, molto diversi con due personalità, estrazioni culturali specifiche e distanti, ma decidono per curiosità, per desiderio di ignoto, di unirsi in una famiglia e di scoprire quello che non sanno di sé, frequentando l'altro. Ci sarà una separazione, ma il tema non è il fallimento di quell'unione, quanto la celebrazione di quel tentativo.

Il mestiere dell'attore, lo dicevamo, ti mette in contatto con parti di te che mai avevi pensato di poter toccare. C'è stata una scoperta, da questo punto di vista, che ti ha turbato?
Il tema della violenza. La violenza è energia, ma pericolosa, è come andare in macchina a 300 all'ora, può essere gratificante ma è molto pericoloso e non c'è nemmeno da spiegare perché lo sia. Ho interpretato a teatro un personaggio estremamente drammatico, era stracolmo di rabbia e in quel periodo in cui lo portavo in scena lo ero anche io, ed è stato catartico, ma allo stesso tempo scioccante. Ero così carico di rabbia e avevo la possibilità di scaricarla, ma se non mi fossi trovato in un teatro ci sarebbero state conseguenze. Un attore ha il privilegio di scendere negli abissi emotivi, in maniera sperimentale, in una situazione priva di attrito, quindi fai un'esperienza e ne comprendi anche la tragicità.
Marco, c'è qualcosa che ad oggi faresti con intensità diversa?
Eh, tutto (ride ndr.). L'arte come la vita è un viaggio sedimentale, si va per accumulo di esperienza. Se rileggi un libro che avevi letto dieci anni prima, non è più la stessa storia, quindi se adesso dovessi rifare delle cose che ho fatto in passato le farei diversamente, che non è né meglio, né peggio.
Tanti anni di carriera, tanti ruoli, ma un po' per volere dell'industria che funziona in certo modo, sono stati spesso molto simili. Cosa si prova quando finalmente ti sei cimentato in altro?
È stata una sensazione bellissima. Per moltissimi e moltissime di noi è una condanna, l'industria funziona così e vogliono quello che hanno appena visto, per cui offrire qualcosa di diverso è molto difficile, perciò si trovano carriere che sono una continua ripetizione, ma il nostro viaggio professionale dovrebbe andare di pari passo con quello personale. Se sto cercando me stesso non mi va di ripetermi, è come andare sempre sulla stessa spiaggia in vacanza, finché sei un bambino la ripetizione ti rassicura, ma dopo un po' vuoi l'ignoto. È bello trovarsi in un ruolo in cui non sai cosa devi fare, è una vertigine.

Qual è stata la prima persona che ha riconosciuto in te un talento? Oltre te stesso, ovviamente.
Ovviamente devi credere in te stesso, altrimenti non riesci in quello che devi fare, compreso gestire i rifiuti, ma il motivo per cui riesci a svegliarti la mattina e fare un altro passo è perché qualcuno ti ha rispecchiato, ti ha fatto capire che quello che pensi non è una fantasia, ma è plausibile. Credo siano state due persone, la mia prima insegnante di danza e il mio primo professore di filosofia, mi hanno fiducia, speranza, mi hanno rassicurato sulla strada che stavo per imboccare e all'inizio della carriera non è semplice. Ricordo che Monica Vitti al Centro Sperimentale ci disse "Ragazzi, questa cosa la fate perché è una questione di vita o di morte o lasciate perdere".
Cosa ti avevano detto la tua insegnante e il professore?
La mia prima insegnante di danza mi ha detto che avevo un senso dell'armonia e del ritmo, una qualità fondamentale anche per uno scrittore, non solo per un attore o per un cantante. Ed è una cosa vera, ho un buon orecchio e sento quando una pagina fluisce, una battuta scivola, quando il movimento è organico credo di sentirlo. Il mio professore di filosofia mi ha detto un'altra cosa molto bella, cioè che avevo un io desiderante molto pronunciato e che dovevo ascoltarlo.
Cosa dice oggi questo Io desiderante?
Di continuare a fare quello che sto facendo, di credere in avventure in cui nessuno crederebbe, di credere nella mia diversità, nella mia unicità. Galimberti dice che ognuno di noi deve trovare il proprio demone e dargli voce, se lo fai, se non hai paura di scendere nella tua follia, quella follia ti salverà. Credo che questa frequentazione di una follia controllata, quella che non diventa patologia, ma ti permette di oltrepassare la soglia, è l'essenza dell'arte che vive di piccole sortite nello spazio oscuro della follia e rientrate.
Non c'è nulla, lavorativamente parlando, che vorresti cambiare?
Credo che la mia carriera non abbia ancora avuto un'esplosione e sono sicuro che è una cosa che direbbero molti colleghi, è proprio perché ho voluto inseguire il mio desiderio di ignoto, piuttosto che una ripetizione di me stesso che magari la gente avrebbe riconosciuto più facilmente. Ma l'unica cosa che penso di aver fatto è assecondare me stesso, come ognuno di noi dovrebbe fare.