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Opinioni

La zona d’interesse è un film sul nazismo, ma racconta un’indifferenza per l’orrore che vale anche oggi

Lo straordinario film britannico racconta l’ordinaria quotidianità della famiglia Hoss in una villetta familiare al confine con il campo di concentramento di Auschwitz. Un film che non può non indurre gli spettatori a una riflessione sul tema dell’apatia, l’indifferenza, il distacco emotivo.
A cura di Andrea Parrella
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Il male non è solo di chi lo pratica ma anche, forse soprattutto, di chi lo tollera, lo normalizza senza farci più caso. La zona d'interesse è un film di potenza incredibile, che attraverso una storia paradigmatica ci racconta qual è il carburante più efficace dell'orrore: l'indifferenza.

Il film britannico diretto da Jonathan Glazer, candidato a cinque premi Oscar (miglior film, miglior regia, miglior film internazionale, miglior sceneggiatura non originale e miglior sonoro) si incentra su un confine, quel muro che separa la famiglia del gerarca nazista Rudolf Höss dal campo di concentramento di Auschwitz, fondato e guidato dallo stesso Höss per alcuni anni. Il 2 aprile 1947 venne condannato come criminale di guerra alla pena di morte mediante impiccagione, poi eseguita davanti all'ingresso del crematorio di Auschwitz. Ma questo film si limita a "costeggiare", è proprio il caso di dirlo, le atrocità commesse in modo sistemico ad Auschwitz, soffermandosi sull'assurda normalità che si consumava all'esterno del muro di cinta del campo di concentramento.

L'ambientazione de La Zona d'interesse, nelle battute iniziali, sembra riportarci a scenari che il cinema negli ultimi decenni ha dissezionato da cima a fondo, fino a determinare una sorta di sazietà percettiva per la quale le pellicole incentrate sulla Germania nazista e sul tema dell'olocausto incontravano difficoltà ad imporsi nell'immaginario comune. Il film di Glazer rompe questa sorta di uniformità.

Quello che possiamo vedere in sala è l'agghiacciante ritratto dell'ordinarietà borghese di una famiglia tedesca degli anni '40, vissuta in un sereno perimetro che ha uno dei lati corrispondente al muro di cinta del campo di concentramento.

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Il capofamiglia è la mente in grado di pianificare l'orrore che si consuma a pochi metri da queste tranquille esistenze, prima di rientrare in casa lascia all'esterno gli stivali sporchi di sangue, quindi veste gli abiti del padre premuroso e del marito complice, sua moglie organizza feste nel loro giardino paradisiaco con tanto di piscina, ostentando con fierezza i risultati di quella casa con affaccio sui forni crematori.

Non si tratta di un film dai tratti surreali e grotteschi, tutto è dannatamente lineare. Nel film diretto da Glazer si consuma l‘attesa perenne di un colpo di scena che non arriva mai, atrocità che non vediamo coi nostri occhi ma ascoltiamo: grida, spari e cani che ringhiano come sottofondo sonoro di una vita che scorre lenta nella sua normalità allucinante.

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È letteralmente impossibile che la visione di questo film non induca gli spettatori a una riflessione sul tema dell'apatia, l'indifferenza, il distacco emotivo che l'essere umano è in grado di sviluppare verso le brutalità che si consumano a pochi metri da sé. La nitidezza di questo racconto cinematografico del periodo più buio della storia recente suggerisce, inevitabilmente, un riferimento nemmeno troppo velato alle indifferenze del nostro tempo, in cui gli strumenti di distrazione sono in grado di risucchiarci, vampirizzare la nostra attenzione, dispositivi che potrebbero permetterci di guardare l'orrore in alta definizione e che contribuiscono, al contempo, alla cecità delle coscienze.

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"L'avvenire è dei curiosi di professione", recitava la frase di un vecchio film che provo a ricordare ogni giorno. Scrivo di intrattenimento e televisione dal 2012, coltivando la speranza di riuscire a raccontare la realtà che vediamo attraverso uno schermo, di qualunque dimensione sia. Renzo Arbore è il mio profeta.
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