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Opinioni

La scelta di Renzi: cacciare Conte e portare avanti il programma di Confindustria

Dall’utilizzo del Mes all’aumento di infrastrutture nel Recovery Plan, dall’opposizione a sugar tax e plastic tax alla decontribuzione del lavoro, dal lessico parodistico contro il Sussidistan al dissenso sul blocco dei licenziamenti: tutte le convergenze tra Confindustria e il leader di Italia Viva.
A cura di Roberta Covelli
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L'esperienza del Conte bis è ormai finita, sono in corso le consultazioni al Quirinale e proprio oggi è toccato alla delegazione di Italia Viva incontrare il presidente Mattarella: quali che siano le prospettive istituzionali, è il caso di guardare ancora una volta alle cause della crisi di governo, provando a evidenziare le convergenze tra un attore dal peso politico relativamente limitato, Matteo Renzi (che con Italia Viva può contare su 28 deputati, 17 senatori e sondaggi non troppo incoraggianti), e un’associazione economica, Confindustria, che dopo un anno complicato pare essersi riorganizzata e rappresentare una realtà che, più di altre, può trasformare questa crisi in opportunità. Almeno per sé.

La stagione dei rinnovi dei contratti collettivi nazionali

Il 2020, anche senza pandemia, sarebbe stato un anno complicato per Confindustria. Da un lato, è previsto l’avvicendamento al vertice, con il termine della presidenza di Vincenzo Boccia e l’inizio del mandato di Bonomi. Dall'altro, si apre la stagione dei necessari rinnovi dei contratti collettivi: secondo il rapporto CNEL, infatti, nel corso del 2020 sarebbero scaduti quasi 200 contratti collettivi nazionali. I contratti collettivi sono cornici di tutele, normative ed economiche, negoziate tra sindacati dei lavoratori e associazioni imprenditoriali: la loro scadenza prevede un confronto tra le parti sociali, per adeguare le previsioni contrattuali alle necessità di lavoratori e imprese. A essere coinvolti dalle scadenze nel 2020 sarebbero stati 10 milioni di lavoratori, a cui bisogna aggiungere i dipendenti impiegati nei settori in attesa, ormai da anni, di rinnovi che non arrivano.

La posizione del neopresidente Bonomi appare da subito piuttosto netta: forte critica all’indizione di scioperi, esclusione degli aumenti salariali e proposte di differenziare gli elementi reddituali su base territoriale (sull’esempio delle vecchie gabbie salariali, per intenderci). La rigidità di strategia finisce però per sollevare i malumori delle confederazioni locali e regionali, oltre che di settore, tanto che sia grandi aziende (Danone, Ferrero, Lavazza), sia diverse associazioni datoriali (come quelle imprenditoriali del settore alimentare) rompono il fronte confindustriale invitando i sindacati a riprendere le negoziazioni, per evitare che l’aumento della conflittualità pregiudichi le ripartenze dopo il primo lockdown.

La gestione della pandemia tra ristori e riaperture

La prima convergenza tra Renzi e Confindustria arriva a meno di una settimana dal lockdown delle imprese. Il 22 marzo le misure di confinamento già previste per i cittadini si allargano alle aziende. Cinque giorni dopo Renzi tuona "non vogliamo morire di Covid, ma non vogliamo morire di fame".

Le continue dichiarazioni del leader di Italia Viva paiono anticipare la posizione di Confindustria. Dalle dichiarazioni della vicepresidente Licia Mattioli all’Agenda per la riapertura dell’8 aprile 2020, la richiesta delle rappresentanze imprenditoriali appare perfettamente in linea con i moniti renziani: riaprire le fabbriche, riprendere le attività economiche. Qualche mese dopo, sarà il presidente, poi dimessosi, di Confindustria Macerata, senza troppe perifrasi, a ribadire l'imperativo della riapertura, costi quel che costi, "anche se qualcuno morirà, pazienza".

Intanto, il governo prevede sostegni e ristori. Vengono stanziati fondi per la cassa integrazione e per la cassa integrazione in deroga, che, pur pensate per garantire (parte del) salario ai lavoratori, sostengono indirettamente anche le imprese, eliminando un capitolo di spesa. Alle imprese, inoltre, sono dedicate misure come l'esenzione IRAP, la sospensione degli adempimenti fiscali, l'accesso al credito con prestiti garantiti totalmente dallo Stato, a cui si aggiungono i ristori.

La contropartita imposta alle imprese è il blocco dei licenziamenti.

La visione del lavoro, la critica al Sussidistan, le pretese fiscali

Con il decreto Cura Italia, il 17 marzo, si prevede la sospensione delle procedure di licenziamento collettivo e il divieto di intimare licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, cioè di quei recessi che l'impresa impone per ragioni economiche, che possono essere sia di crisi sia di aumento dei profitti.

Nell'audizione parlamentare sul disegno di legge di Bilancio 2021, il 25 novembre 2020, Confindustria ribadisce la posizione su questa misura, sottolineando come "la proroga della cassa integrazione e il divieto di licenziamento sono ancora legati a una logica meramente emergenziale e difensiva".

Già qualche mese prima, Matteo Renzi aveva definito la proroga delle due misure come "il metadone dell'economia italiana", con una chiosa dicotomica: "serve crescita, non assistenzialismo".

Sul punto, Renzi e Bonomi condividono anche il vocabolario parodistico: difficile dire chi dei due abbia utilizzato per primo il termine Sussidistan, che ovviamente entrambi riferiscono al sostegno per redditi bassi (dalla cassa integrazione al Reddito di cittadinanza) e non certo ai fondi garantiti alle imprese.

In quanto pronunciato da Renzi nel colloquio con il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman alla conferenza Future Investment Initiative, può inoltre notarsi una visione dell'occupazione (e della retribuzione) in ottica padronale: il leader di Italia Viva si è infatti confessato invidioso del costo del lavoro a Riad ("I cannot speak about cost of job because as italian I'm very jealous").

Al di là delle preferenze sul costo del lavoro, ulteriore misura richiesta (e già sperimentata da Renzi quand'era al governo) in comune con Confindustria è una politica di esonero contributivo del lavoro, ossia il pagamento da parte dello Stato, invece che dell'impresa, dei contributi previdenziali dovuti ai dipendenti. Le pretese di Confindustria sono anche più ardite, proponendo che i datori di lavoro non siano più sostituti d'imposta Irpef (cioè, semplificando, che l'Irpef non venga più pagato dai lavoratori per tramite delle aziende, ma che il rapporto sia diretto tra Agenzia delle Entrate e dipendenti) e che la decontribuzione, già prevista in alcuni casi per aumentare l'occupazione, non sia accostata a vincoli per l'impresa. Sempre nell'audizione parlamentare sul Ddl Bilancio, infatti, Confindustria denuncia come le misure previste per l'occupazione femminile, giovanile e al Sud siano "caratterizzate da vincoli per le imprese tali da disincentivarne l’utilizzo". Un esempio? L’incentivo occupazione giovani "è subordinato al divieto di licenziamento non solo nei sei mesi precedenti l’assunzione, ma anche nei nove successivi": per accedere all'esonero contributivo è infatti necessario che nel periodo l'azienda non abbia proceduto a licenziamenti, collettivi o individuali, per ragioni economiche.

Sempre sul piano fiscale si pone un'altra convergenza tra la posizione di Matteo Renzi e di Confindustria: sugar tax e plastic tax. "Si ribadisce la necessità di riconsiderare totalmente l’introduzione di tali imposte", spiega Confindustria in audizione parlamentare, notando con favore il rinvio delle previsioni al 1° luglio 2021. Il rinvio era stato salutato con favore, e con la promessa di impegnarsi a cancellare del tutto la penalizzazione fiscale su zuccheri e plastica, da Matteo Renzi.

Le critiche strategiche alla base della crisi di governo

Le convergenze tra Renzi e Confindustria potrebbero certamente essere occasionali, legate a singoli temi: il leader di Italia Viva potrebbe ben avere le stesse opinioni di Confindustria sulle immediate riaperture fin da marzo, o sul blocco dei licenziamenti, trovarsi nella medesima posizione in materia fiscale o perfino di condividere lo sprezzo verso i sussidi. Tuttavia, la somiglianza appare più profonda se confrontata con il passato e con il (progetto di) futuro.

Storicamente, Renzi ha spesso trovato dalla sua Confindustria. Dal 2012, quando Giorgio Squinzi, al tempo presidente, si complimentò con l'allora sindaco di Firenze, assicurando che, se fosse stato fiorentino, avrebbe votato per lui ("veramente una persona che ha delle idee e molte delle idee che ha espresso il sindaco corrispondono esattamente alle mie"), il sostegno dal mondo confederale delle imprese non è mai venuto meno, al netto delle differenze di ruolo. D'altronde, non è un mistero che il Jobs act presentasse non pochi punti in comune con il documento confindustriale "Proposte per il mercato del lavoro e per la contrattazione", pubblicato nel maggio 2014, qualche mese prima della riforma del lavoro renziana. Perfino durante la campagna per il referendum costituzionale, quando diversi alleati si erano sfilati, Confindustria proponeva apocalittiche previsioni in caso di bocciatura della riforma Renzi-Boschi (previsioni che, ça va sans dire, non si sono poi verificate).

Tornando al presente, pur senza sostenere esplicitamente il leader di Italia Viva, Confindustria si pone sulla sua stessa posizione rispetto al MES, con un comunicato congiunto rivolto con altre realtà imprenditoriali al Governo, e, soprattutto, rispetto al Recovery Fund.

Sul metodo, non possiamo che confrontare le posizioni di Conte e di Renzi: l'uno spiega di aver recepito le proposte di Italia Viva nel Piano Nazionale di ripresa e resilienza, l'altro giustifica le dimissioni di ministre e sottosegretario con il mancato confronto sul piano, che sarebbe di fatto esclusiva di Conte e dei ministri Gualtieri e Patuanelli. La richiesta di Renzi, a prescindere da quanto si sia effettivamente verificato nella dialettica all'interno dell'esecutivo, è una partecipazione concreta della sua compagine, una pretesa non troppo diversa da quella che Confindustria richiedeva per sé nell'ambito della citata audizione parlamentare sul Ddl Bilancio.

Confindustria ritiene che questa sfida vada affrontata anzitutto sul piano del metodo, attraverso una partecipazione effettiva e responsabile degli attori economici e sociali già nella fase di selezione delle priorità e, a seguire, nella successiva attuazione degli interventi. Questa partecipazione non può ridursi a mera consultazione, ma deve condurre alla condivisione degli obiettivi, per indirizzare e attuare le politiche dei prossimi anni. Confindustria, pertanto, chiede un confronto formale sulla proposta di PNRR che il Governo stesso intende presentare a questo Parlamento.

Nel merito, poi, con il cosiddetto progetto CIAO, sintesi delle proposte di Italia Viva per il Recovery Plan e di fatto ultimatum di fine anno all'esecutivo guidato da Conte, Renzi propone l'utilizzo del MES per la sanità e, intanto, enfatizza la I di Infrastrutture. E quando, tre settimane dopo, per il secondo incontro con le parti sociali, Giuseppe Conte alla vigilia delle dimissioni incontra Bonomi, l'unica nota sui contenuti da parte del presidente di Confindustria riguarda un tema e uno soltanto: proprio le infrastrutture.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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