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Contro-appello sullo schwa, perché fa così paura la ‘e’ capovolta (ə)

La petizione su Change.org ‘Lo schwa (ə)? No grazie. Pro lingua nostra’ ha raggiunto da sabato quasi 14mila firme. Chiedetevi, prima di sottoscrivere la petizione, se non state contribuendo a schiacciare, mortificare e relegare ancora di più ai margini persone che già si sentono discriminate.
A cura di Annalisa Cangemi
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Care e cari intellettuali che avete firmato il vostro appello contro il simbolo fonetico /ə/, il tanto temuto ‘schwa’, ma siete così sicuri che la vostra battaglia a difesa della lingua italiana e delle abitudini radicate dei parlanti sia libera da pregiudizi?

Scusateci se mettiamo in dubbio quanto dice il professor Luca Serianni, ordinario di Storia della Lingua italiana, uno dei firmatari della petizione su Change.org, quando sostiene che “i segni grafici di cui parliamo non hanno un corrispettivo nel parlato. E qualunque lingua è in primo luogo una lingua parlata. Lo schwa che resa può avere? Nessuna”.

Secondo la linguista Vera Gheno, prediligere questa “e” capovolta (ə), rispetto ad esempio all’utilizzo dell’asterisco (*), ha il vantaggio di avere un suono, “un suono davvero medio, non come la U che in alcuni dialetti denota un maschile”. Chiedetevi, prima di sottoscrivere la petizione, se non state contribuendo a schiacciare, mortificare e relegare ancora di più ai margini persone che già si sentono discriminate, anche da quello che per voi è la semplice osservanza di regole grammaticali (che comunque non sono immutabili e non sono date una volta per tutte). Certo i processi linguistici non sono mai stati rapidi nei secoli scorsi, e difficilmente funzionano quando sono fredde operazioni chirurgiche imposte dall’alto. Ma quanto rapidamente si è modificata la sensibilità comune negli ultimi 50 anni? Ve ne siete accorti?

Siete così sicuri che queste istanze, che voi giudicate minacciose, addirittura una“pericolosa deriva”, siano solo dettate da “perbenismo, superficiale e modaiolo?”

Esistono uomini e donne ed esistono le innumerevoli sfumature dell’identità di genere, che, lo ricordiamo, non ha nulla a che vedere con l’orientamento sessuale. Ignorare questo concetto non impedirà per fortuna alla società di evolvere nei prossimi anni. Sta già accadendo, e i più giovani sono sicuramente i primi ad averlo capito. Quante volte ci siamo sentite dire per esempio che “architetta” o “sindaca” suonano male, non sono comuni o sono una forzatura, e poi molto timidamente e non senza la disapprovazione di molti, il femminile di questi sostantivi, che in passato servivano a designare ruoli prettamente maschili, è stato accettato. E guarda un po’, se pronunciati ad alta voce non sembrano nemmeno così buffi come dicevano.

È un fatto: c’è chi non si sente rappresentato dalla struttura della nostra lingua. Possiamo decidere di promuovere la cultura del rispetto, dell’accoglienza, oppure scegliere di lasciarci irrigidire dalla paura che un testo diventi “indecifrabile”.

Ora io non so se lo ‘schwa’ sia davvero il modo più adatto per affrontare il problema della mancanza di inclusività linguistica, o se ce ne siano altri. Non credo che si debbano rivedere Dante, Petrarca, Leopardi e tutta la poesia, come scrive provocatoriamente il presidente onorario della Crusca Francesco Sabatini. Ma forse non basta accostare sempre il maschile e il femminile tutte le volte che in un discorso ci si vuole riferire a categorie di persone, facendo attenzione a non escludere il genere femminile. Forse questa soluzione risulta un po’ pedante, forse è inefficace, non lo so.

Ma dall’alto dei vostri studi, forti delle vostre competenze in materia, invece di limitarvi a schernire chi solleva un tema, vi chiediamo di mettervi al servizio della collettività, per trovare magari i modi più appropriati, che possano dare delle risposte soprattutto alle nuove generazioni, ai vostri figli e nipoti, e ai vostri pronipoti. Perché questa difesa ostinata della purezza della lingua potrà forse rafforzare le convinzioni di chi ha paura dei cambiamenti, e vuole arroccarsi in un mondo che non esiste più. Ma di certo vi rende totalmente scollegati dalla realtà.

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Giornalista professionista dal 2014, a Fanpage.it mi occupo soprattutto di politica e dintorni. Sicula doc, ho lasciato Palermo per studiare a Roma. Poi la Capitale mi ha fagocitata. Dopo una laurea in Lettere Moderne e in Editoria e giornalismo ho frequentato il master in giornalismo dell'Università Lumsa. I primi articoli li ho scritti per la rivista della casa editrice 'il Palindromo'. Ho fatto stage a Repubblica.it e alla cronaca nazionale del TG3. Ho vinto il primo premio al concorso giornalistico nazionale 'Ilaria Rambaldi' con l'inchiesta 'Viaggio nell'isola dei petrolchimici', un lavoro sugli impianti industriali siciliani situati in zone ad alto rischio sismico, pubblicato da RE Le Inchieste di Repubblica.it. Come videomaker ho lavorato a La7, nel programma televisivo Tagadà.
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