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Opinioni

Come trattiamo gli stranieri che vivono in Italia (secondo loro)

Immigrazione ed integrazione sono da tempo al centro di una battaglia politico – ideologica (ricca di strumentalizzazioni e propaganda). Ma come “stanno” gli stranieri residenti in Italia? Si sentono realmente parte attiva e rispettata del nostro Paese? E c’entra davvero qualcosa la differenza di religione? Proviamo a capirlo, numeri alla mano.
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Nei giorni in cui, sulla spinta emotiva dei tremendi fatti di Parigi, nel nostro Paese si torna a parlare di modello di integrazione sostenibile e mentre da più parti si rilancia un allarme “invasione”, la cosa migliore è provare a fotografare la realtà per quella che è, combinando insieme i dati reali con la “percezione” dei diversi soggetti. Chiarito che la questione “invasione islamica” ha riscontri pressoché nulli (qui il nostro approfondimento), proviamo a tirare le fila del discorso a partire dalla consistenza numerica della presenza straniera in Italia e dalle sue “implicazioni” e complicazioni sociali.

Gli ultimi dati disponibili quantificano in 4.9 milioni gli stranieri residenti in Italia, secondo un trend in rapida crescita, con un incremento di 3 milioni di unità in soli 10 anni (erano 1,9 milioni nel 2004,  2,6 milioni nel 2007, 3,6 milioni nel 2010, 4,4 milioni nel 2013). La porzione più numerosa è di origine romena (21% del totale), poi albanese (11%), marocchina (10%), cinese (5%) e ucraina (4%); le richieste di cittadinanza accolte nel 2013 sono state 100mila, secondo un trend in netta crescita (nel 2003 sono state 17mila, 35mila nel 2006, 59mila nel 2009); nel 2013 su ogni 100 bambini nati, 15 hanno entrambi i genitori stranieri, cifra decuplicata in nemmeno venti anni, mentre per ogni 100 matrimoni celebrati 4,8 sono fra sposi entrambi stranieri. (FONTE: ISTAT)

Questi i dati sulla presenza “straniera” in Italia, ma l’analisi non può ovviamente fermarsi a questo. Resta il “come vivono” e qual è il livello di integrazione reale nella società italiana (per il momento al netto della discussione sul “modello” e sull’omologazione culturale in atto). Prendiamo qualche indicatore, provando ad evidenziare il peso che ha nel complesso delle interazioni sociali. Innanzitutto il dato sul tasso di disoccupazione, che per i cittadini stranieri residenti in Italia è più alto rispetto alla media e sfiora il 20 per le donne ed il 18 per gli uomini. Quelli che lavorano sono pagati meno rispetto agli italiani, anche a parità di qualifiche e tipologia di lavoro svolto: il salario medio di un lavoratore italiano a fine 2013 è di 1304 euro mensili, cifra che scende a 968 euro per i lavoratori stranieri. Per quel che concerne le tutele previdenziali ed assistenziali, la legislazione è differente e, in generale, le procedure sono sensibilmente più complesse ed i tempi di attesa / erogazione del servizio considerevolmente più lunghi (qui il report dell’Inps). Basta ad esempio considerare la complessità ed i limiti del percorso per ottenere un assegno familiare o, più in generale, i vincoli derivanti dai permessi di soggiorno nel caso in cui si perda il lavoro.

Insomma, differenze essenziali che resistono, nonostante il principio della parità di trattamento, per il quale “il lavoratore comunitario o extracomunitario deve essere trattato come il lavoratore nazionale per quanto riguarda: le condizioni di impiego e di lavoro, in particolare in materia di retribuzione, licenziamento e reintegrazione professionale, sicurezza e salute sul posto di lavoro, prestazioni a sostegno del reddito […] i diritti sindacali e di rappresentanza del personale nell’impresa”. Per quel che concerne case popolari, assegni di mantenimento, "regali dello Stato" e altre pseudo bufale, non possiamo che rimandarvi qui e qui.

Occupiamoci ora del modo in cui questa situazione è “percepita” dagli stranieri, promettendo di tornare a breve sulle questioni degli immigrati clandestini, dei lavoratori “non regolari” e della “criminalità”. Ad analizzare la situazione ha provato l’Istat con un report pubblicato alla fine di ottobre 2014 che mostra una serie di dati decisamente interessanti e ci consente di capire con esattezza alcune dinamiche.

Sul piano del benessere soggettivo degli stranieri, misurato attraverso il livello di soddisfazione per la vita in generale e verso il lavoro”, si legge, “emerge un quadro complessivamente positivo”, tanto che la maggioranza dei cittadini stranieri è soddisfatta per la vita nel suo complesso in misura sensibilmente superiore rispetto agli italiani”: in particolare, a registrare un grado di soddisfazione maggiore sono stranieri giovani e con un titolo di studio medio – alto; mentre su base territoriale gli stranieri dichiarano di trovare condizioni di vita nettamente migliori nel Nord Est e nel Centro rispetto a quelle del Mezzogiorno.

Sul “dove” nascano le discriminazioni ci sono pochi dubbi: sul posto di lavoro, secondo una lettura che non fa che rafforzare l’idea che il fulcro del problema integrazione sia nei rapporti di produzione / consumo / retribuzione e nella forbice reddituale. Il 30% circa della popolazione straniera dichiara di aver subito una qualche forma di discriminazione in Italia (“stranieri cioè che ritengono di essere stati trattati in maniera meno favorevole di altri per alcune caratteristiche fisiche o mentali, per le origini straniere o altre caratteristiche personali non rilevanti ai fini dell’attività da svolgere o del contesto in cui si sono trovati”). Come detto, l’indagine mostra come “trattamenti discriminatori sono più frequenti in ambito lavorativo: il 19,2% degli stranieri di 15 anni e più, circa 555 mila persone, afferma di aver subìto un trattamento meno favorevole mentre lavorava o cercava lavoro. La situazione appare più diffusa sul lavoro (16,9%) piuttosto che nella ricerca del lavoro (9,3%), senza evidenti differenze di genere”. Il clima ostile si manifesterebbe soprattutto da parte di colleghi, superiori o clienti e si concretizzerebbe sia in carichi di lavoro più pesanti della media, sia nella retribuzioni inferiore.

Insomma, gli stranieri sono mediamente soddisfatti della loro vita nel nostro Paese, pur in presenza di una serie di criticità legate soprattutto alla condizione lavorativa e reddituale. Come avviene nel resto d'Europa, del resto. Perché evidentemente questa società non è (più?) scalabile con la facilità di un tempo e la crisi si è fatta sentire proprio nei gangli vitali della società, che è certamente meno permeabile di quanto crediamo che sia. Ma non basta.

Perché è essenziale notare come tra i motivi di discriminazione rientrino le origini (per il 90% degli intervistati), la scarsa conoscenza della lingua italiana (per il 30%), il colore della pelle (circa il 15%) e le questioni legate al genere. Cosa manca? Ah sì, la discriminazione religiosa, che è ritenuta evidente solo dal 6% della popolazione straniera.

Il quadro cambia di pochissimo se dal posto di lavoro ci si sposta nelle aule scolastiche: il 12,5% degli stranieri dichiara infatti di aver subito discriminazioni nel proprio percorso di studi (quasi 3 su 4 di essi fa riferimento ai propri compagni di studio ed i più discriminati si sentono i cinesi). Anche in questo caso, sorpresa, la discriminazione in base al culto religioso è a livelli di percezione bassissimi. Ecco, forse converrebbe fermarsi un attimo a riflettere. 

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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