Il padre di Ramy Elgaml, a un anno dalla morte: “Nessuno ha fatto niente per noi, per i suoi amici vive ancora”

Erano le 4:03 del 24 novembre 2024 quando, all'incrocio tra via Ripamonti e via Quaranta, nella periferia Sud di Milano, uno scooter Yamaha T-Max si schiantava contro il palo di un semaforo pedonale e terminava la sua corsa su un fianco, su un'aiuola. Alla guida c'era Fares Bouzidi, un 22enne che uscirà dieci giorni più tardi dall'ospedale San Paolo in stampelle. Il suo amico, Ramy Elgaml, era seduto dietro di lui e alle 4:58 di quella stessa notte verrà dichiarato deceduto a causa di una lesione dell'arteria aorta. Aveva 19 anni.
Un anno dopo, passando ancora per quell'incrocio, non è rimasto nulla dell'incidente. Il semaforo è stato sostituito e le tracce della frenata di “Volpe 40”, una delle due Gazzelle dei carabinieri che per 8 chilometri avevano inseguito i ragazzi, non si vedono più. Ciò che è rimasto sono i teli bianchi che chiedono “Verità per Ramy” dalle inchieste che sono state aperte dalla Procura e il ricordo di chi quel 19enne lo conosceva, o di chi ne ha fatto un simbolo.
A che punto sono le indagini sull'incidente
L'inchiesta sulle responsabilità della morte di Ramy è coordinata dai pm Marco Cirigliano e Giancarla Serafini e vede indagati per concorso di colpa in omicidio stradale Fares Bouzidi e Antonio Lenoci, il militare di 37 anni che guidava l'Alfa Romeo Giulietta dei carabinieri. Le indagini preliminari sono state chiuse lo scorso luglio, ma ancora non è arrivata da parte della Procura la richiesta di rinvio a giudizio. Negli ultimi mesi, infatti, i magistrati hanno chiesto per due volte alla gip del Tribunale, Maria Idria Gurgo di Castelmenardo, una terza perizia in incidente probatorio per ricostruire "l'esatta dinamica" dello schianto. Richieste respinte in entrambi i casi.
Come ha spiegato a Fanpage.it l'avvocata Barbara Indovina, che rappresenta la famiglia Elgaml, ad oggi ci sono "due diverse visioni del sinistro: una è che ci sia stato un primo urto prima del semaforo che ha fatto cadere i ragazzi dallo scooter, ed è la ricostruzione fatta dai nostri consulenti e dai vigili subito dopo l'incidente nel Fascicolo di ricostruzione della dinamica; l'altra è che ci sia stato solo l'urto al semaforo, che è la tesi della consulenza della Procura e dell'altro indagato".
Il confronto tra perizie
Dunque, secondo la perizia dell'ingegnere Domenico Romaniello, incaricato dalla Procura, lo scooter T-Max sul quale viaggiavano Ramy e Fares arrivato all'incrocio con via Quaranta, dopo aver percorso contromano un tratto di via Ripamonti, sarebbe scivolato in curva a causa del "sovrasterzo" e poi, dopo aver urtato il marciapiede, avrebbe impattato contro il palo semaforico pedonale e terminato la corsa contro un'aiuola.
La controperizia realizzata dall'ingegnere Matteo Villaraggia, su incarico di Indovina, invece ci sarebbe stato un urto poco prima dell'incrocio. Un impatto che, anche se lieve, avrebbe fatto cambiare la traiettoria allo scooter. Fares avrebbe provato a frenare sulle strisce pedonali (dove non sono rimaste impresse le tracce), scivolando e perdendo il controllo del mezzo. La tesi, dunque, è che se non ci fosse stato il primo contatto tra la Gazzella dei carabinieri e il T-Max, lo scooter non avrebbe cambiato traiettoria e, forse, non sarebbe caduto.
Per due volte lo scorso ottobre gli inquirenti hanno chiesto di disporre una terza perizia, la quale avrebbe potuto fornire una "ricostruzione univoca" dello schianto che, ad oggi, mancherebbe. La giudice, però, ha respinto queste richieste. "Non è escluso che venga disposto un accertamento d'ufficio durante il corso del procedimento", ha concluso Indovina.
Nel frattempo, sono state chiuse anche le indagini per depistaggio che vedono indagati quattro carabinieri. Per l'accusa, appena dopo lo schianto due militari avrebbero intimato a un ragazzo che aveva assistito alla scena e ne aveva filmato almeno una parte con il proprio smartphone di eliminare quei video. Le perizie avrebbero accertato che, in effetti, ci sarebbero tracce di filmati cancellati nel dispositivo del giovane. Gli altri due militari, invece, avevano raggiunto il luogo dell'incidente poco dopo.
Le proteste delle periferie italiane
Ramy era diventato un simbolo già poche ore dopo la sua morte. Appena la notizia del decesso era stata resa pubblica e si vociferava di un presunto coinvolgimento dei carabinieri, alcuni amici avevano improvvisato un picchetto fuori dall'ospedale dove era stato trasportato e nel pomeriggio dato vita alle prime proteste spontanee. Già dalla serata del 24 novembre, il quartiere Corvetto si era acceso con fuochi d'artificio e cassonetti in fiamme, un preludio di quello che sarebbe accaduto la notte seguente, con un pullman distrutto e un 21enne fermato dalle forze dell'ordine.
Vari cortei erano stati organizzati anche in altre città per chiedere "giustizia per Ramy, per tutte le morti di Stato". A Torino migliaia di persone erano scese in piazza, arrivando a scontrarsi con i carabinieri sotto l'Ufficio passaporti della Questura. Scena che si era ripetuta anche a Roma, dove la polizia in assetto antisommossa aveva caricato i manifestanti che volevano raggiungere la caserma dei carabinieri.

La morte di Ramy ha provocato da sola la reazione non solo di un intero quartiere, ma di migliaia di persone in tutto il Paese. La sua storia, infatti, è simile a quella di molti altri ragazzi che come lui vivono al Corvetto e, più in generale, nelle periferie delle città. Figlio di una famiglia di migranti egiziani, i suoi genitori erano arrivati in Italia per dare ai propri figli una vita migliore della loro. Figli che, però, spesso non conoscono il loro Paese d'origine e che, nonostante la scuola e le amicizie coltivate negli anni, sono considerati stranieri dalla legge italiana fino al raggiungimento della maggiore età. La domanda che circola ormai da un anno negli ambienti dell'attivismo sociale è una sola: "Si sarebbe parlato così tanto di Ramy e Fares se il Corvetto non avesse alzato con forza la propria voce?".
Yehia Elgaml: "Mio figlio Ramy vive ancora per i suoi amici"
Il primo a chiedere al Corvetto di "abbassare i toni delle proteste" era stato Yehia Elgaml, padre di Ramy. "Noi non c'entriamo niente con loro", aveva dichiarato a Fanpage.it, "ho incontrato questi ragazzi e gli ho chiesto di fermarsi. Voglio solo giustizia per Ramy". Per queste parole, Yehia e sua moglie Farida avevano ricevuto la visita del sindaco di Milano Beppe Sala e a febbraio erano stati premiati con il riconoscimento alla Virtù Civica. Oltre a quelle due manifestazioni di sostegno, però, non ci sarebbe stato altro: "Nessuno ha fatto niente per noi", ha spiegato ancora Yehia a Fanpage.it.
Secondo suo padre, Ramy è diventato un simbolo perché "era un ragazzo normale, gli piaceva la vita", anche se la sua è stata "breve". In vista del processo, Yehia ha ribadito la sua "fiducia nella giustizia italiana", sperando "che si faccia in fretta". Intanto, ha raccontato ancora, suo figlio "Ramy è ancora vivo per i suoi amici. È scritto su tutti i muri: ‘Ramy vive'".
Ha collaborato Simone Giancristofaro



