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McDonald’s: il 90% degli impiegati in UK ha un contratto “a zero ore”

Aumentano sempre più in Gran Bretagna i cosiddetti “zero-hours contract”, una sorta di legalizzazione del precariato e dello sfruttamento, non essendo incluso nell’accordo fra lavoratore e committente un numero minimo di ore a settimana e la garanzia di un salario stabile.
A cura di Biagio Chiariello
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Passata la sbornia mediatica del Royal Baby, in Regno Unito si torna a parlare di uno dei problemi più sentiti: l'occupazione. Il cosiddetto "labour hoarding", quel fenomeno che vede le aziende in crisi evitare i licenziamenti e trattenere i dipendenti, a condizioni economiche ridotte in attesa di tempi migliori, sembra dilagare tra multinazionali del fast food. In particolare è McDonald's ad avere ammesso che impiega il 90 per cento del proprio personale in Gran Bretagna attraverso i controversi "contratti a zero ore", che per dirla in maniera sintetica rappresentano una sorta di legalizzazione del precariato e dello sfruttamento, non essendo incluso nell’accordo fra lavoratore e committente un numero minimo di ore a settimana, oltre che la garanzia di un reddito stabile.

Secondo i termini, i dipendenti accettano di essere disponibili a lavorare come e quando è necessario all'azienda. Basta una breve preavviso. Gli impiegati non godono di alcun periodo di ferie retribuite. McDonald impiega 92.000 collaboratori nel Regno Unito e ha introdotto i zero-hours contracts nel 1974. Un'altra che utilizza questa tipologia di contratti e Subway, che però si è difesa affermando che i propri punti vendita sono proprietà indipendenti e termini e condizioni sono stati fissati dagli affiliati. Pret A Manger, invece, ha affermato che a tutto il suo personale è garantito un minimo di otto ore lavorative a settimana. La scorsa settimana l'Office for National Statistics ha riferito che alla fine del 2012 risultavano 50.000 persone assunte con questa tipologia di contratto, un numero in aumento di 50.000 unità rispetto allo stesso periodo del 2011.

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