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Opinioni

Brasile: contro i “Circenses” si fa la storia

I brasiliani non ci stanno, dicono basta: con il circo del calcio non si mangia. Stanno creando un punto a capo nella Storia, quella con la S maiuscola. E anche noi che tifiamo Italia e amiamo il calcio, non possiamo che stare con loro.
A cura di Federico Mello
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Non bisogna prendere sottogamba quello che sta succedendo in questi giorni in Brasile. Gli appassionati appaiono sbigottiti per le proteste nella “patria del calcio” contro “il gioco più bello del mondo”. Chi il calcio lo ha sempre odiato, invece, fa il tipo per i manifestanti, ritiene che il circo del pallone sia ormai al capolinea. A ben guardare, però, le cose non stanno né in uno né nell'altro modo. Stiamo assistendo invece a qualcosa di diverso che potrebbe, in prospettiva, diventare qualcosa di storico. Sì perché, dal punto di vista sociale, le migliaia di persone scese in piazza a Rio de Janero, a Belo Horizonte, a Salvador De Bahia, a Vitoria, stanno facendo quello che finora mai si era visto. Stanno protestando contro i “circenses”.

“Panem et circenses” è un'espressione che tutti conosciamo. Attribuita al poeta latino Giovenale e ripresa in ogni epoca e in ogni salsa, indica la potenza degli spettacoli pubblici nel distrarre il popolo, rapirlo dalle sue preoccupazioni e dai suoi bisogni, intrattenerlo per evitargli di pensare. Dai gladiatori romani alle giostre medievali, dai processi agli eretici alle pubbliche esecuzioni, da sempre la piazza è stata usata dalle autorità per distrarre e sopire. Non è un caso che anche “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley – opera a suo modo ispiratrice e speculare rispetto al 1984 di George Orwell – immagini una realtà distopica nella quale una dittatura totalitaria obbliga i cittadini all'intrattenimento coatto, al divertimento come “dovere morale”.

Oggi i brasiliani dicono basta, e non si fanno incantare più dalle rovesciate e dai dribbling dei loro paladini. Le proteste sono nate contro il rialzo di sette centesimi di euro dei biglietti di bus e treni – aumento rientrato dopo i disordini. Ma il vero obiettivo sono i costi per il finanziamento della confederation cup, dei mondiali e delle olimpiadi di là da venire. Secondo quanto elaborato da una commissione del Senato di Brasilia, per i mondiali del 2014 il Brasile investirà più di quanto è stato speso complessivamente per i mondiali di Giappone-Corea, Germania e Sudafrica messi insieme. Se queste tre manifestazioni sono costate, rispettivamente, 16; 6 e 8 miliardi di dollari, per i mondiali brasiliani si potrebbe arrivare in tutto a 50 miliardi. E questo in un Paese in cui ancora oggi, i poveri, coloro che vivono con meno di due dollari al giorno, sono ancora 29,8 milioni di persone: quasi 1 ogni 6 rispetto ai 191 milioni di abitanti totali.

Certo, è vero che il Brasile viene da una lunga e robusta fase di crescita economica, anni caratterizzati da politiche redistributive: solo vent'anni fa, nel 1993, erano un terzo, 51 milioni, i brasiliani poveri. Ma proprio i Paesi che crescono sono quelli nei quali si accendono e si diffondono battaglie sociali per l'uguaglianza: è successo in Italia dopo il boom degli anni '60, succede ancora oggi in Turchia.

Il popolo, sembrano spiegarci i brasiliani, non si fa più ingannare. Neanche dalla nazionali galattiche. La storia recente, d'altronde, dà loro ragione. Nel 2004 la Grecia sembrava pronta a lanciarsi nell'Olimpo dell'occidente sviluppato, prima vincendo gli Europei e poi organizzando le Olimpiadi ad Atene. Ed invece il popolo nostro dirimpettaio e fratello, da quegli anni non si è più ripreso. Nella culla della democrazia, oggi, stadi e impianti rimasti da quegli anni vengono chiamati le “moderne rovine greche”; studiosi ed economisti sono pressoché concordi nell'affermare che proprio nel buco di oltre 15 miliardi di dollari creato per organizzare le Olimpiadi greche risieda il buco che ha poi affondato il Paese, quello che ha portato al disastro che ora abbiamo tutti sotto gli occhi.

I brasiliani, invece, nell'anno domini 2013, non ci stanno, dicono basta. Con il circo del calcio non si mangia, dicono. Stanno creando un punto a capo nella Storia, quella con la S maiuscola. E anche noi che tifiamo Italia e amiamo il calcio, non possiamo che stare con loro.

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35 anni, leccese, giornalista. Sono stato blogger, poi Annozero, Il Fatto Quotidiano e Pubblico. Ho scritto «Il lato oscuro delle stelle» : http://goo.gl/nCnaI
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