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Massimiliano Loizzi: “Siamo assuefatti al peggio, non è vero che non si può dire niente”

Nel suo spettacolo “Il tour buonista”, l’attore e comico Massimiliano Loizzi affronta il modo in cui ci si può riappropriare di parole come solidarietà e inclusione senza vergognarsene.
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A cura di Francesco Raiola
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Massimiliano Loizzi
Massimiliano Loizzi

Da qualche anno il termine "buonista" è usato dalle destre con un'accezione negativa, per contrastare chi ha a cuore una serie di argomenti come quello dell'inclusione e della solidarietà. Massimiliano Loizzi, autore, comico, attore ed uno dei volti del Terzo Segreto di Satira (e collaboratore di Fanpage.it), ha deciso di mettere su uno spettacolo di stand-up comedy intitolato proprio "Il tour buonista" in cui racconta "l’orrore quotidiano che è tutt’intorno a noi ma soprattutto dentro di noi". Lo abbiamo intervistato per parlare di buonismo, appunto, dello sguardo di un comico su quello che accade, di politicamente corretto e del fatto che non è vero che non si può più dire niente.

Loizzi, come sta andato il tour?

Per fortuna sta andando benissimo: fino ad ora, tranne un paio di repliche (perché un buonista dice sempre la verità) è sempre stato tutto esaurito. Abbiamo cominciato con le anteprime a marzo e ormai siamo alla ventiduesima replica e nonostante la fatica e l’età che avanza, sono e siamo molto soddisfatti, sia dello spettacolo che del progetto che lo segue.

Quando “buonista” è diventata un’offesa?

Francamente non lo so ed è proprio questo il problema: ci siamo talmente assuefatti ad un certo tipo di narrazione e comunicazione che ormai siamo, ahinoi, sempre pronti al peggio e a quanto pare al peggio non c’è mai fine. E difatti una delle domande che mi pongo durante lo spettacolo, che pone mille domande ma dà pochissime risposte, è proprio quella che mi hai fatto: perché parole come inclusione, partecipazione, parità di genere sono diventate “parolacce”? Perché concetti come questi che dovrebbero appartenere a tutte e tutti, indipendentemente dalla propria geografia politica, sono diventati appannaggio di pochi? E perché “noi” persone di sinistra quasi ci vergogniamo a parlarne, a dire certe parole, proprio per evitare di essere tacciati come buonisti. Lo so bene cosa voglia dire “buonista”, parola che indentifica un certo tipo di persone che abusano di buone azioni per acquisire visibilità, ma parliamo sempre e comunque di “buone azioni”. Quindi, torno “a bomba” (come dicono i giovani) con le domande: perché qualunque pensiero di “sinistra” oggi è identificato come buonista e politicamente corretto?

Perché?

Perché per quanto mi riguarda – eliminando le derive idiote che ci sono in ogni campo dell’essere umano – il politicamente corretto spesso mi sembra un modo per celare un razzismo che poi non è nemmeno così malcelato. Credo che la sirenetta nera ne sia il perfetto esempio: tutto l’internet si è scagliato contro la scelta di far interpretare la sirenetta, nella riedizione della Disney, a un’attrice nera e il commento che più mi ha fatto ridere e allo stesso piangere è stato quello di un utente che diceva (e giuro che cito testualmente): “una sirena non può essere nera perché nelle profondità del mare non arriva il sole e quindi non si sviluppa la melanina”. Ovviamente sotto il sole non si respira ma la battuta più bella l’ha fornita il regista del film: “Quando qualcuno saprà portarmi le prove del colore della pelle di una sirena allora io mi adeguerò". Gli stereotipi sono il male e spesso la causa del razzismo e cerco di metterli in scena.

Cosa racconti in questo tour buonista?

Cerco di raccontare l’orrore quotidiano che è tutt’intorno a noi ma soprattutto dentro di noi: Gaber diceva una frase bellissima ovvero che non sono tanto Salvini e Meloni in sé (lui diceva Berlusconi) a farmi paura ma il razzismo, il Salvini, la Meloni che sono in me a farmi veramente tanta paura. Tutto comincia in una cabina elettorale, la mattina del 26 settembre 2022, una data “tristemente” nota ormai a tutte e tutti, una data di cambiamento: lì, per una serie di ragioni che scaturiscono dalla frase di uno scrutatore che abbiamo sentito milioni di volte e che per farmi fretta mi diceva “dai, tanto uno vale l’altro”, come in un giorno di ordinaria follia, perdo momentaneamente il senno, tanto da essere portato in caserma. Da lì parte, a ritroso, il racconto di quello che mi – e ci – avrebbe portato a quel 26 settembre: il giorno prima, la settimana prima, il mese, l’anno e il ventennio prima, facendo idealmente cominciare tutto da Genova 2001.

Una data importante: quindi alterni momenti storici alla tua vita?

Sì, racconto la storia del Paese attraverso la mia storia in un intreccio di personale e politico, dove la cabina elettorale, come in tanti meravigliosi racconti della nostra cinematografia, diventa fulcro della storia, un rito civile laico; alternando storie tragiche che diventano comiche perché si può e si deve ridere di tutto a storie personali e drammatiche che lasciano più spazio alla commozione e la riflessione.

Come nasce questa idea?

Il tutto nasce perché la mia bimba di 7 anni, tornata a casa da scuola, dove le avevano parlato della strage di Cutro, mi ha chiesto – con una domanda che mi ha lacerato il cuore – se è vero che anche i bambini e le bambine possono morire e perché ci sono le guerre. Io da bravo padre di famiglia le ho risposto “chiedi a tua madre”, dopodiché, preso da un moto d’orgoglio le ho detto che sta a noi che siamo nati in un parte di mondo più "fortunata" (per quanto pensando ai nostri politici le virgolette sono d’obbligo) cercare di cambiare il mondo e renderlo un posto migliore. Lei mi ha risposto, spiazzandomi come solo le bambine e bambini sanno fare: “E come facciamo noi che siamo così piccoli a cambiare il mondo che è così grande?”. Un pezzo alla volta, un pezzo alla volta. Che è diventata una frase-mantra della nostra famiglia ed anche un tormentone dello spettacolo. Da lì ho e abbiamo avuto la presunzione di credere che questo progetto che coinvolge anche lo spettacolo sia un piccolo pezzo alla volta per cambiare un po’ il mondo.

A proposito di politicamente corretto, a volte i tuoi colleghi dicono che “non si può dire niente”. Credi che sia veramente così oppure è un modo per mantenere uno status quo?

Non credo affatto sia così perché in realtà c’è tutta la scena della stand-up comedy che sta prendendo sempre più piede – frequentata da giovanissimi che acquistano con piacere il biglietto, manco fossero concerti di rockstar – in cui non vi è alcun tipo di censura, dove si parla liberamente di tutto e dove il pubblico comprende benissimo quale sia il contesto; esiste il teatro – permettimi il termine – “più tradizionale” dove la libertà di espressione da sempre è un concetto imprescindibile. Viceversa in televisione e in generale nel mainstream esiste da sempre un codice censoreo che a seconda dei gusti e delle mode cambia (a parte il tabù della religione che in Italia non tramonta mai): adesso ne vige uno, fra qualche anno ce ne sarà un altro, non credo sia questo il problema. Il problema per me è il contesto e il modo in cui si dicono certe parole: Pio e Amedeo asseriscono che non sono importanti le parole ma le intenzioni. Ecco non sono assolutamente d’accordo perché se per tutta la tua vita vieni chiamato “ne**o”, “pu**ana” e “ri**hione” quelle parole, indipendentemente dalle intenzioni, possono diventare pugnali alle spalle e possono fare molto male. Quindi quando mi chiedono “eh sarò libero di dire ne**o, pu**ana, ri**hione se mi va o non siamo più in una democrazia”, di soluto rispondo che se non comprendi il concetto e la pratica della libertà allora è inutile parlare di democrazia e di solito aggiungo anche di andare a fare in culo. Poi vabbè c’è il problema dei social che hanno il potere di prendere una frase, estrapolarla dal contesto e renderla virale: ecco, anche per questo credo si debba stare attenti alle parole che si usano. Per questo amo il teatro – ovunque esso si faccia – inteso come luogo dell’anima dove ci sono persone vive che ascoltano altre persone vive dal vivo: esiste lì e rimane lì ma poi te lo porti dentro anche quando te ne vai. Se fatto bene, se no ti diverti e basta oppure ti rompi le scatole per 90 minuti e basta.

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Quali sono le cose che mancano maggiormente in Italia?

La sinistra.O quantomeno un partito che la rappresenti per davvero. Poi mancano tanto le mezze stagioni e la capacità di mettersi nei panni degli altri e delle altre. Io non conosco come sia la vita negli altri paesi ma vedo che troppo spesso in Italia la gente pensa di avere sempre ragione e in più pensa anche che tutti gli altri siano idioti. Ecco, questa credo sia una malattia dei nostri tempi: manca l’ascolto, la comprensione dell’altro, manca il dialogo con chi la pensa diversamente da noi che potrebbe diventare motivo di crescita. E poi in realtà andando nello specifico mancherebbero tantissime cose ma poi si fa notte se stiamo qui ad elencare tutto: di certo quello che non manca all’Italia è il cibo, perché dove vai e vai si mangia sempre bene e dove vai e vai l’Italia è tutta bella. Di certo gli stereotipi in Italia non mancano, diciamo così. Io faccio parte di una generazione che nel 2001 era a Genova nel tentativo di creare un altro mondo possibile, noi ventenni di allora cercavamo di costruire un altro mondo, i ventenni di oggi invece cercano, giustamente, di salvare quello in cui vivono e questa differenza è sconcertante: in vent’anni la situazione è talmente deflagrata che i ventenni e le ventenni non possono far altro che immaginare un mondo che non muoia. Ecco in questo paese di certo manca la prospettiva e la lungimiranza: qui si pensa sempre solo all’oggi e mai al domani. Mi piace pensare che questo spettacolo e il progetto che lo segue possa essere un piccolo seme per guardare oltre.

Cosa intendi quando parli di “propaganda satirica”?

Qualcuno ha detto prima di me che se i politici diventano comici, nostro malgrado, allora spetta ai comici fare politica: per me la propaganda satirica è il tentativo di riappropriarci di quelle parole di cui parlavamo prima – inclusione, accoglienza, parità di genere etc – senza dovercene vergognare, è il desiderio di raccontare l’Italia andando a colpire là dove fa male, rappresentando gli stereotipi del razzismo, della misoginia, del sessismo, dell’omofobia, del fascismo che sono in ognuno e ognuna di noi, cercando di combattere quell’orrore. E visto che ormai anche l’attivismo è stato mangiato dal capitalismo, diventando esso stesso una forma di reddito, perché non farlo anch’io, anche noi? Il problema dell’attivismo e della propaganda al tempo dei social è che si confonde troppo spesso la divulgazione con la lotta: condividere la notizia di una manifestazione, non è partecipare ad una manifestazione, sono cose ben distinte. Quindi in questo senso questo è uno spettacolo attivista e di propaganda: antifascista, antirazzista, antisessista, anticosebrutte. Avrei voluto chiamarlo “Primo memorial governo Meloni” con la speranza che due o trecento persone a sera che incrociano le dita avrebbero potuto portare ad una buona conclusione ma mi è stato detto che dal punto di vista commerciale forse non avrebbe funzionato.

È anche uno spettacolo che si impegna materialmente, giusto?

Sì, è uno spettacolo legato ad un progetto ecosostenibile quindi di propaganda ambientalista e civile: per ogni replica in collaborazione con EcoFactory piantiamo 3 mangrovie in Mozambico (che mi fa sempre ridere dirlo perché tanto chi andrà mai a controllare se sia vero o meno) e dei semi in Lazio in un progetto di riforestazione in Italia, tutto il tour è a impatto zero perché mi muovo solo in treno (tanto comunque non ho la patente), teniamo dei laboratori con le ragazze e ragazzi delle superiori su parità di genere e inclusione in collaborazione con We World Onlus, una onlus che se non ci fosse andrebbe inventata per il meraviglioso lavoro che da anni fa in Africa e con le donne, sosteniamo le attività di Sheep Italia, la onlus fondata da Saverio Tommasi che con il lavoro stupendo che fa con donne provenienti da situazione di difficoltà disagio, violenza, guerra etc rappresenta benissimo quell’idea di un pezzo alla volta, che anima tutto il progetto. Oltre ovviamente a raccogliere fondi per Emergency.

Cosa ti lega alla loro causa e cosa rappresenta Emergency per l’Italia, oggi?

Emergency per me è un punto di riferimento imprescindibile, cui puntare continuamente. E nel momento in cui con il decreto Cutro e tutte le funzionalità di questo governo, hanno stabilito che le Ong sono dei soggetti al limite della legalità, come ha detto qualcuno prima di me, noi ci mettiamo dalla parte del torto, dalla parte dei fuorilegge. Ed è per questo che durante ogni singolo spettacolo, faccio gonfiare un canotto ad uno spettatore con il quale poi passiamo fra il pubblico a raccogliere fondi (ovvero banconote e non monete come sempre urlo ai poveri spettatori e spettatrici) che andranno a LifeSupport la nave di Emergency che presta ricerca e soccorso in mare e dove alla fine del tour faremo lo spettacolo per l’equipaggio e un piccolo pubblico, consegnando metaforicamente il malloppo. Appunto, ci sedemmo dalla parte del torto o perlomeno il pubblico è seduto, io resto sempre in piedi. E tutto questo insieme: certo io sono il frontman, io sono il più bello di tutti, io sono l’unico attore del monologo e del tour, io sono l’autore e il regista ma – ed è un ma grosso quanto una casa – tutto questo viene fatto insieme, ogni sera, in un posto diverso ogni sera, con un pubblico diversa che partecipa donando, ridendo, piangendo e stando insieme perché alla fine – come diceva un poeta libanese – "non c’è niente di più bello di stare insieme". PS il poeta libanese sono io ma se attribuisci ad un altro, meglio se poeta estero e lontano, una tua frase, suona sempre più bella.

Massimiliano Loizzi sarà il 20 maggio al Teatro Magda Olivero di Saluzzo e dal 23 al 28 maggio al Torino Fringe Festival di Torino

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