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“L’infinito senza farci caso”, il nuovo libro di Franco Arminio: “Torniamo a parlare d’amore”

Torna in libreria il poeta più amato e odiato d’Italia: Franco Arminio parla del suo ultimo libro “L’infinito senza farci caso”, edito da Bompiani. Dopo i successi di “Cedi la strada agli alberi” e “Resteranno i canti”, l’autore e paesologo irpino affronta il tema per eccellenza: le poesie d’amore.
A cura di Andrea Melis
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Ogni libro di Franco Arminio è, a suo modo, un evento, che piaccia o no. Dalle vendite alla risonanza sul web, la sua è una popolarità indiscutibile. Ciononostante, si conferma il poeta vivente più controverso nel panorama letterario italiano: amato e odiato allo stesso tempo. Troppo popolare per le èlite del mondo poetico più tradizionale, almeno quanto accusato di essere troppo altezzoso dai poeti meno bravi e non circondati dalle folle di lettori che lui riesce a raccogliere ovunque in Italia con tour infaticabili e incontri pubblici che spesso sconfinano in veri riti poetici fatti di canti e atti provocatori.

Da ieri è sbarcato in libreria con un nuovo libro, edito da Bompiani, che affronta il tema dell’amore. “L’infinito senza farci caso” dopo i successi di “Cedi la Strada agli alberi” e “Resteranno i Canti” (i più noti insieme a “Cartoline dai Morti”, sebbene abbia scritto e pubblicato almeno due decine di libri non solo di poesia ma anche di paesologia e tanti altri spesso in equilibrio indefinibile tra prosa e poesia) rappresenta certamente una nuova sfida per il poeta e paesologo irpino. Lo abbiamo intervistato per provare ad offrire un ritratto senza troppi filtri e quanto più veritiero possibile.

Partiamo dalla fine. Dopo una densa e luminosa cavalcata di poesie c’è un testo in prosa molto ambizioso che hai intitolato “Manifesto delle intimità provvisorie” dove denunci il dilagare della pornografia, intesa come oscenità nei sentimenti, e annunci la fine delle forme dell’amore tradizionale, dal matrimonio al torpore di molte relazioni di facciata e convenzionali.

Questo è una tema che in realtà mi porto dietro da sempre. Sin da ragazzo quando a sedici anni andavo a scuola con l’autobus a Lacedonia e intrecciavo le prime storie amorose con le ragazze. Ho sempre pensato che ci fosse bisogno di reinventare continuamente i modi di stare insieme, di farlo concretamente perché l’amore è una cosa concreta, non è una questione filosofica. Non esistono amori astratti, si ama sempre una figura o un dettaglio di questa figura. Nelle due precedenti raccolte di poesie avevo sempre messo una sezione dedicata all’amore. Qui l’amore si è preso tutto, le altre poesie su diversi argomenti dovranno attendere una nuova raccolta. L’amore nel mio caso è un po’ come la morte, è una presenza fortissima ma anche un’assenza: di fatto ancora non sono morto e forse amare è una sorta di perenne prologo a un amore che deve ancora venire.  L’amore e la morte sono i miei due temi, oltre al tema del paese. E se sulla morte credo di aver detto tanto nelle Cartoline, con l’amore avevo fatto un tentativo nel 1998 che si intitolava “Sala degli affreschi”  un  tentativo, meno centrato e riuscito di quello che ho fatto adesso. Con la poesia ci vuole tempo. Alcune poesie di quel libro sono anche in questo, sono quelle che hanno resistito all’usura del tempo.

Nel frattempo sono passati vent’anni. Nel mentre è diventato più urgente il tema dell’amore?

È urgente probabilmente per due motivi: primo perché tutti abbiamo a che fare con l’amore quotidianamente. O perché lo abbiamo, o l’abbiamo perduto, o ne cerchiamo un altro, o ne abbiamo appena trovato uno. E due perché esistono tanti equivoci che si sono ammassati sull’amore. Prima fra tutti la pornografia. Che sembra supplire altre forme di partecipazione alla vita che sono venute a mancare, le relazioni di gruppo, come la politica, certe forme di amicizia, o l’appartenenza religiosa. Un po’ come se anziché andare in chiesa oggi ci si andasse a infilare dentro un sito porno in cerca di chissà quale fortuna. Questo modo sbagliato di cercare l’amore mi sembra che in definitiva abbiamo solo fatto aumentare le solitudini.

Il tema dell’amore è solo in apparenza leggero. Invece è probabilmente l’argomento più complesso con il quale un poeta può misurarsi. A partire dalla nudità che richiede.

Si. Sebbene nel momento in cui uno è al lavoro magari non si rende nemmeno conto di quanto si stia denudando. Ho sempre pensato alla letteratura come a una forma di esposizione. Se uno scrive pensando che non la deve dire tutta è meglio che faccia un’altra cosa. La cosa bella è che poi tocca al lettore l’opera di svelamento, è il lettore che ti denuda ulteriormente con la sua lettura.

Entrando più sulla scrittura, l’impressione è che in questo nuovo libro ti sia confrontato più che negli ultimi con la forma della brevità. Sono rimaste poche parole all’amore?

È un terreno che mi è più congeniale. In “Resteranno i Canti” qualcuno mi ha anche rimproverato di aver ecceduto in retorica. E va detto in realtà che il canto politico è necessariamente più retorico e che io non ci vedo tutto questo male nella retorica. Avere una retorica significa anche avere uno stile. L’importante è essere consapevoli che ogni stile contiene un rischio, un poeta che non si arrischia è un poeta inutile. Una certa tonalità consolatoria di certe mie poesie ultime non è dovuta a mancanza di controllo, ma a una scelta precisa. In queste poesie d’amore in un certo senso si produce una sintesi tra le mie tonalità iniziali, più brevi e liriche, e quelle ultime che hanno trovato tanta attenzione nei lettori.

Oltre che per l’amore, che periodo è per la poesia?

Un buon periodo. Io considero il web una straordinaria occasione, almeno per la poesia. Ma penso a una poesia che non nasce lì, penso a un lungo tirocinio poetico che decide di utilizzare anche la Rete. Il ruolo dei critici letterari era importante, ma poteva essere anche un filtro che faceva passare cose brutte e bloccava cosa belle. Ogni strumento ha i suoi pericoli, ci sono pericoli nella Rete e ce n’erano tanti nei meccanismi della società letteraria che la Rete ha completamente buttato per aria.

E quanto scollamento c’è tra il web e la scuola?

La vera domanda che sento fare in maniera unanime tra i ragazzi e i docenti è: ma perché dobbiamo leggere i poeti morti? La risposta, secondo me, è che il potere ha paura dei poeti vivi. Altrimenti non si spiega perché nei programmi scolastici ministeriali una professoressa non possa decidere che quest’anno farà Penna, Magrelli e Scotellaro, anziché studiare unicamente la poesia dei secoli scorsi che quasi sistematicamente non arriva manco a Montale.

E il web che solco ha creato tra i poeti di nicchia ma dai nomi sacri e gli autori popolari come te?

In generale oggi è saltato un sistema che era una sorta di burocrazia della poesia. Fatta da chi pubblicava solo poeti che stavano a spalle chiuse, incurvati su sé stessi, senza alcuna idea popolare. Spesso si scrivevano poesie per compiacere chi dirigeva la collana editoriale di poesia di qualche grande editore, sapendo che così si sarebbe ottenuta la pubblicazione. Ma senza scriverla troppo bene: perché spesso chi dirigeva collane era a sua volta poeta e allora scrivere una poesia più bella della sua portava a essere oscurati. Invece quando la poesia si apre a tante persone, allora c’è spazio per la poesia di tutti. E questo è ciò che ha fatto il web e che penso farà sempre di più in futuro. Magari nasceranno anche dei critici letterari digitali, figure capaci di intervenire sui testi che appaiono in Rete e indicare il buono e il brutto.

Sei d’accordo che con questo rapporto quotidiano coi lettori sul web passi anche più dello scrittore, insieme alle poesie, della sua vita, dei suoi aspetti privati?

È certamente uno dei grandi cambiamenti. I lettori sanno ogni giorno dove sei, cosa fai, conoscono i tuoi affetti, e sicuramente hanno una quantità di informazioni impensabili rispetto al passato anche per afferrare con più cognizione quel che scrivi.  Nel mio caso io non scrivo solo versi. Mi occupo di sviluppo locale, scrivo poesie sui paesi, ma anche progetti contro lo spopolamento. E organizzo festival, faccio video, fotografie. È chiaro che il desiderio di testimoniare tutte queste attività mi porta a una presenza forse eccessiva in Rete. E capisco che alcuni trovano la mia figura poco poetica, nel senso tradizionale della parola, nel senso del ruolo appartato che sempre abbiamo immaginato essere quello proprio del poeta. Da questo punto di vista credo di essere una figura eminentemente sperimentale, uno sperimentalismo legato all’uso della Rete, alle forme che do ogni sera ai miei incontri coi lettori, incontri in cui la lettura del testo poetico è solo un elemento di un approccio complessivamente più festoso e comunitario. E anche questa credo sia una grande novità. Non il poeta performer, ma il poeta come lievito di una comunità provvisoria in cui si intrecciano poesia e passione civile.

Come sai la tua figura divide spesso tra estimatori e dettatori. Ma che bilancio fa di sé stesso Franco Arminio?

Ho sessant’anni e lavoro quotidianamente da oltre quarant’anni facendo di me stesso una perenne officina. Non spetta a me indicare il valore dei miei libri. Certo posso dire di averne scritti tanti, sempre un poco fuori dalle forme tradizionanali. Posso dire di essere continuamente proteso a dare forma alla moltitudine che mi abita. Ci vorranno molti anni per capire se ho scritto pagine necessarie e durature. Io intanto cerco ancora, non mi fermo, non mi fermo neppure per un’ora, faccio carriera nella mia stanchezza, scrivo a oltranza, come se volessi sfondare il muro della mia fronte, come se volessi vedere un osso che nessuno ha mai visto.

Tu cerchi anche un modo sempre corale di portare in giro la poesia. Cosa ti inventerai per questo nuovo libro?

Ecco questo è un altro aspetto che i critici non colgono, perché magari leggono i libri ma mica poi vengono a vederti. Per cui non conoscono la differenza tra uno spettacolo di Catalano e uno di Franco Arminio. Io faccio cantare, faccio tradurre le poesie nei dialetti di chi partecipa, leggo le poesie in ginocchio, a bassa voce, ho un mio modo che si rinnoverà anche per “L’infinito senza farci caso”.  Vado sempre più verso una forma teatrale. Intreccerò la lettura a racconti della mia vita amorosa e a racconti che faranno le persone che verranno. E poi ci saranno le canzoni d’amore. Il tutto sempre con l’idea di passare una serata lieta e pensosa. Non cerco di far divertire le persone, ma di produrre momenti intensi e allo stesso tempo lievi. Chi esce di casa non vuole incontrare uno scrittore che aumenta lo smarrimento in cui siamo immersi. I miei sono esercizi per tornare assieme nella casa del mondo. E credo che c’è più eros nella poesia portata in giro in questo modo che nella dilagante pornografia.

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Andrea Melis (Cagliari, 1979), grafico, videomaker e scrittore, ha pubblicato articoli di cultura, interviste, inchieste e racconti per riviste e quotidiani nazionali e stranieri. Tra i membri fondatori del Collettivo Sabot, ha firmato romanzi insieme ad autori come Massimo Carlotto e Francesco Abate, tra cui Perdas de Fogu (E/O, 2008). La sua prima opera in poesia, #Bisogni, una selezione di versi autoprodotta in mille copie grazie a una campagna di crowdfunding, è andata esaurita in poco più di un mese. Il suo ultimo libro è edito da Feltrinelli, Piccole tracce di vita. Poesie urgenti (2018). Collabora come autore di testi con artisti, illustratori, fotografi, musicisti e compagnie teatrali di tutta Italia. Scrive editoriali poetici per FanPage.it
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