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Barboni, senzatetto, accattoni: basta con gli stereotipi sulle persone senza dimora

Non abbiamo un’idea chiara di chi siano i senza dimora e abbiamo finito per introiettare tutta una serie di stereotipi che hanno impoverito il dibattito sulla homelessness: è questa la tesi centrale de “La colpa di non avere un tetto”, pamphlet scritto dalla ricercatrice e studiosa di politiche abitative Daniela Leonardi: l’abbiamo intervistata su Fanpage.it.
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(Ph David McNew/Newsmakers)
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Non abbiamo un'idea chiara di chi siano i senza dimora e, complici le rappresentazioni svilenti dei media e la scomparsa della questione abitativa dall'agenda politica dei governi, abbiamo finito per introiettare tutta una serie di stereotipi che hanno impoverito il dibattito sulla homelessness: è questa la tesi centrale di La colpa di non avere un tetto, prezioso pamphlet scritto dalla ricercatrice e studiosa di politiche abitative Daniela Leonardi e pubblicato da Eris nella collana Bookblock. Quasi senza rendercene conto, nel nostro approccio quotidiano alla questione abitativa abbiamo interiorizzato un lessico composto di termini classisti e stigmatizzanti: quando ci interfacciamo con le persone senza dimora finiamo per etichettarle variamente come barboni, senzatetto, clochard o accattoni, senza compiere uno sforzo in più per approfondire un fenomeno complesso e sfaccettato, figlio di tagli al welfare a loro volta diretta emanazione di decenni di politiche disattente nei confronti di chi abita i piani più bassi della piramide sociale.

Abbandonare gli stereotipi sulle persone senza dimora

Il libro di Daniela Leonardi è uno strumento di difesa culturale utile per rifuggire da questi stereotipi e sviluppare, finalmente, un approccio critico nei confronti di una tematica così delicata e pregnante, che dovrebbe occupare una posizione apicale nelle agende politiche dei governi ma che, purtroppo, viene puntualmente riposta nel dimenticatoio. Ne abbiamo avuto un esempio pratico osservando le cifre irrisorie che il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ha destinato alla questione abitativa, con poco più di 7 miliardi destinati alla rigenerazione urbana e al potenziamento del cosiddetto “housing sociale” sugli oltre 220 totali; e di questi 7 miliardi quelli riservati al potenziamento dell'Edilizia residenziale pubblica a canone sociale sono appena lo 0,5% – 500 milioni – una delle voci più basse in assoluto. Evidenze che dovrebbero dimostrare come il fatto di non poter contare su un tetto non sia una colpa individuale da espiare, quanto piuttosto il frutto di interventi pubblici totalmente inadeguati. Proprio per queste ragioni, secondo Leonardi, abbandonare gli stereotipi associati alle persone senza dimora può costituire il primo passo di una riconsiderazione critica ormai inderogabile: l'abbiamo intervistata.

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Nel libro sottolinei come, nel dibattito pubblico, si tenda a parlare della homelessness come di un’esperienza individuale che, spesso, qualcuno giunge a considerare alla stregua di una colpa da espiare, e non come un fenomeno sociale complesso: come possiamo cambiare prospettiva?

Il mutamento deve passare, giocoforza, dalla politica, che dovrebbe concentrarsi di meno sulla spettacolarizzazione delle singole situazioni dei senza dimora e focalizzarsi sulle cause che, nel corso degli anni, hanno contribuito a generare una condizione di indigenza estrema, tra le quali: politiche per il diritto all’abitare fallimentari e un fortissimo tasso di disoccupazione e “lavoro povero". Ovviamente, alcune narrazioni problematiche particolarmente stereotipate hanno contribuito a normalizzare lo stigma: basti pensare ai titoli di giornale ad articoli di giornale e rubriche con titoli fuorvianti come “Ritratti e riscatti” oppure “Storie di senza dimora”. In particolare, due stereotipi contrapposti hanno guadagnato ampio seguito: da un lato la retorica che raffigura i senzatetto come persone tendenzialmente pericolose, violente, tossicodipendenti e alcolizzate; dall’altro lato della barricata, invece, c'è il luogo comune dell’homeless come persona buona, solidale e ricchissima di umanità; queste narrazioni finiscono per far cristallizzare stereotipi e per depoliticizzare la homelessness facendo passare in secondo piano la questione abitativa e interventi di rilevanza assoluta, come ad esempio la prevenzione degli sfratti o l’implementazione dell’edilizia residenziale pubblica a canone sociale, prevedendo per queste persone esclusivamente  la presa in carica da parte dei servizi sociali preposti.

Dunque, pensi che il modo in cui i senza dimora vengono rappresentati dai media contribuisca a rinforzare l’immagine stereotipata che abbiamo di loro?

La rappresentazione mediatica ha giocato un ruolo cruciale, anche perché medium come la televisione hanno un enorme potenziale di costruzione di immaginari. Uno dei più fecondi è quello che prova a raffigurare la homelessness e l’assenza di un tetto sulla testa come il prodotto di una scelta individuale, compiuta da persone più o meno abbienti o addirittura provenienti di classi medio-alte che, un bel giorno, scelgono di lasciarsi tutto alla spalle e di dormire per strada per poter condurre una vita “più autentica” e slegarsi totalmente dal consumismo che pervade la nostra società. Per dare una misura della pervasività di queste narrazioni è sufficiente digitare la parola “homeless” su un motore di ricerca; le immagini che appaiono sono sempre le stesse: persone, in maggioranza uomini con la barba lunga e a volta in compagnia di un cane, che chiedono l’elemosina o sono stesi su una panchina. Eppure, la realtà della homelessness è decisamente più complessa e variegata: per esempio, anche i terremotati sono persone senza dimora, esattamente come le persone che vediamo dormire per strada, ma raramente ci riferisce a loro utilizzando questa definizione.

La cultura securitaria portata avanti da alcuni amministratori (penso alle multe ai senzatetto durante la pandemia, all’architettura ostile) è da ricollegare agli stereotipi che solitamente associamo ai senza dimora? 

Diverse persone che si occupano di questi temi hanno dipinto i tratti di una vera e propria guerra nei confronti dei poveri – anziché nei confronti della povertà – volta a svilire le persone “non produttive” e, se possibile, celarle agli occhi dei passanti. Ovviamente, parlare dei “senzatetto” come responsabili del degrado dei centri storici legittima giri di vite sulla sicurezza e interventi connessi alla necessità di “ripristinare il decoro". Negli ultimi tempi, il tema del “degrado" ha acquisito una centralità crescente nel dibattito politico; la centralità attribuita a questo tema – unitamente all’enfasi di alcuni titoli di giornale – ha prodotto un risultato che è sotto gli occhi di chiunque: sempre più spesso, le persone in condizione di grave emarginazione vengono criminalizzate per il solo fatto di esistere, perché occupano indebitamente gli sazi pubblici con i loro corpi. Questa demonizzazione si è resa ben visibile anche nelle prime fasi della pandemia da coronavirus, quando alcune persone senza dimora venivano multate perché ree di non rimanere in casa durante i mesi del primo lockdown: un controsenso, dato che parliamo di persone che, per definizione, una casa non ce l’hanno.

Quando si parla di politiche abitative, qual è il grande non detto?

Bisogna rimettere al centro la questione abitativa, contrastare la povertà anziché muovere una guerra silenziosa nei confronti dei poveri per nasconderli sotto al tappeto in occasione dei grandi eventi o criminalizzarli per la loro condizione di indigenza. Da questo punto di vista, la pandemia ha aperto degli spazi di riflessione importantissimi e interventi sensati (basti pensare al blocco degli sfratti e ai licenziamenti): è il momento di svincolarci dagli stereotipi e prendere sul serio queste sfide.

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