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Quindici anni senza Federico, il dolore di papà Aldrovandi: “Ogni anno rivivo l’incubo”

Il 25 settembre 2005, quindici anni fa, il diciottenne Federico Aldrovandi veniva ucciso dalla polizia in via dell’Ippodromo a Ferrara. Le parole di papà Lino nell’anniversario dell’omicidio: “Ogni anno, giunta l’alba, si ripete l’incubo, il ricordo orribile dell’uccisione di un figlio da parte di chi avrebbe dovuto proteggerlo. Quello che non mi darà mai pace sono le urla di Federico con quelle sue parole di ‘basta’ e ‘aiuto’ sentite anche a centinaia di metri”.
A cura di Angela Marino
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"Il 25 settembre di ogni anno, giunta l’alba, si ripete quello che per me rimarrà per sempre un incubo, o peggio, il ricordo orribile dell’uccisione di un figlio da parte di chi avrebbe dovuto proteggergli la vita". Sono le parole di Lino Aldrovandi, papà di Federico, il ragazzo ucciso dalla polizia a Ferrara nel 2005. Come ogni anno, la famiglia dell'allora diciottenne ricorda i fatti accaduti in via dell'Ippodromo ormai 15 anni fa, il 25 settembre 2005, quando Federico ha perso la vita durante un pestaggio da parte di quattro agenti in servizio, in seguito condannati a 3 anni e 6 mesi, con pena ridotta dall'indulto.

Ecco cosa scrive papà Lino sul suo profilo Facebook:

Quello che non mi darà mai pace sono le urla di Federico con quelle sue parole di ‘basta' e ‘aiuto' sentite anche a centinaia di metri, ma non da quegli agenti (atti processuali). Anzi, il quarto, quello proteso in piedi a telefonare col cellulare di un collega, mentre Federico è a terra bloccato, a tempestarlo di calci (testimonianza in incidente probatorio del 16 giugno 2006). Un’immagine ai miei occhi di padre non diversa, anzi peggiore, considerandone gli autori di quel massacro (54 lesioni Federico aveva addosso, la distruzione dello scroto, buchi sulla testa e per finire il suo cuore compresso o colpito da un forte colpo gli si spezzò o meglio gli fu spezzato) rispetto ad altri casi orribili in cui la violenza l’ha fatta da padrona. Perché? Gli atti processuali dei tre ordini di giudizio portarono, sì, alla condanna definitiva degli agenti (eccesso colposo in omicidio colposo con pena a 3 anni e 6 mesi, ridotta a 6 mesi per via dell’indulto), ma sono le parole “scritte dai giudici nei tre gradi di giudizio” che rimarranno lì come un macigno a rendere un poco di giustizia a “un ragazzo ucciso”, e che faranno sempre la differenza, i cui risvolti avrebbero potuto avere un epilogo di pena ben più grave nei confronti dei responsabili di un omicidio tanto assurdo quanto ingiustificato. Ricordiamocelo sempre quando si abbia a parlare di questa orribile storia, per non correre il rischio di sminuire, annullare o resettare una verità che oltre a produrre inevitabilmente tanto dolore lacerante, sopratutto in chi l’ha subita, ha comunque aperto una strada anche se difficile da percorrere, verso quei luoghi chiamati rispetto, dignità, civiltà, democrazia, legalità, umanità, partecipazione, impunità. Maggior ragione oggi non perdere di vista quelle mete. Non a caso, a volte penso volutamente, si rischia a tutti i livelli, di perdere la bussola del buon senso e della normalità. Non perdiamola.

Lino Aldrovandi

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