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Perché lo Stato italiano è complice degli uomini che uccidono le donne

Il femminicidio di Mihaela Kleics è l’ennesimo crimine contro le donne che l’Italia finge di condannare. Viviamo in un sistema che ignora la violenza per poi piangere la 60a morte annunciata.
A cura di Jennifer Guerra
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Un cinquantaseienne di Quartu Sant’Elena, Sandro Sarais, ha ucciso con decine di coltellate la compagna Mihaela Kleics, di origini romene, per poi tentare di togliersi la vita. Ora si trova in ospedale a Cagliari, in stato di fermo con l’accusa di omicidio volontario. Mihaela Kleics è la sessantesima donna a morire quest’anno per mano del partner, ma questo caso è ancora più doloroso perché Kleics aveva già denunciato Sarais, senza contare tutte le volte in cui le forze dell’ordine erano intervenute nell’abitazione della coppia, l’ultima delle quali solo sabato scorso. Una dinamica che si ripete tante, troppe volte, nonostante l’approvazione del Codice rosso nel 2019, che ha introdotto un iter privilegiato per le denunce che riguardano casi di violenza contro donne e minori.

Secondo il Codice, infatti, non solo le indagini preliminari per i reati connessi alla violenza di genere hanno la priorità, ma queste indagini servono ad accelerare eventuali provvedimenti protettivi o di non avvicinamento, per salvaguardare l’incolumità delle donne nel più breve tempo possibile. Nel caso di Mihaela Kleics, questo non è stato fatto. Come ha sottolineato la presidente della rete dei centri antiviolenza italiani D.i.Re Antonella Veltri in un duro comunicato: “Ancora una volta torniamo a ripetere che le leggi ci sono, che si sta anche facendo uno sforzo per migliorarle, ma che il problema resta invariato: perché chi le deve applicare non sempre lo fa. È venuto il momento per le istituzioni di assumersi la responsabilità per queste morti annunciate, per aver trattato con sufficienza le donne che denunciano la violenza, per non aver loro creduto, per non aver agito con la necessaria tempestività”. In questo caso non solo Kleics aveva denunciato il compagno, ma era stata anche trasportata in ospedale dopo una lite: perché il medico che l’ha visitata non ha denunciato il fatto all’Autorità giudiziaria, come è obbligato a fare? E se è stato fatto, perché non è stato dato seguito a questa segnalazione?

Solo pochi giorni fa la scrittrice Loredana Lipperini pubblicava sul suo profilo Facebook la testimonianza di una donna vittima di violenza che ha avuto una storia molto simile. Dopo essere stata seguita durante la denuncia querela secondo la procedura del Codice rosso, per mesi non è stata più ricontattata, esponendosi a ulteriore violenza. La donna in questione può raccontare la sua storia, ma Kleics e tante altre come lei non hanno avuto la stessa fortuna: non solo non protette, ma ignorate da un sistema che si è assunto l’obbligo di prevenire, perseguire ed eliminare ogni forma di violenza di genere con la ratifica della Convenzione di Istanbul nel 2013.

Proprio per l’inadempienza nei confronti di questa carta, l’Italia è stata richiamata più volte. L’ultimo rapporto GREVIO, il gruppo di esperte chiamato a vigilare sull’applicazione della Convenzione di Istanbul, ha sottolineato la distanza tra le leggi e il loro rispetto: dal punto di vista normativo, l’Italia è dotata di tutti gli strumenti necessari al contrasto alla violenza. Il problema è che non vengono rispettati. Nel 2017 la Corte europea per i diritti umani aveva condannato l’Italia per non aver protetto Elisaveta Talpis e il figlio Andrei che, intervenuto per proteggere la madre, era stato ucciso dal padre con una coltellata. Alla condanna è seguita la procedura di sorveglianza rafforzata del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sull’Italia, a cui il nostro Paese è ancora sottoposto. Quest’anno la Cedu ha emesso una seconda condanna nei confronti del nostro Stato, per il caso della violenza sessuale di gruppo di Fortezza da Basso. La corte ha sottolineato nella sentenza che “è essenziale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle loro decisioni, di minimizzare le violenze basate sul genere e di esporre le donne ad una vittimizzazione secondaria con parole colpevolizzanti e moralizzatrici”.

Di fronte all’ennesimo caso di femminicidio di fronte al quale sembra non si riesca a fare nulla, gli accorati appelli che meno di un mese fa venivano fatti per la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne cadono nel vuoto. “Denunciate! Se non lo fate siete complici dei vostri aggressori” si leggeva sui giornali e sui social o si sentiva in tv. Ma complici non sono le donne che non denunciano, perché magari sanno bene che ad aspettarle ci sarà sospetto o immobilità. Complice è un sistema che ignora la violenza, per poi piangere la sessantesima morte annunciata.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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