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Gigi Datome a Fanpage: “L’Europa è la mia dimensione, lasciare l’NBA è stata scelta giusta”

Gigi Datome si racconta e ci spiega perché “un grande cestista è prima di tutto un grande pensatore”. L’ala dell’Olimpia Milano ai microfoni di Fanpage.it ha parlato del suo ritorno in Italia all’Olimpia Milano dopo la parentesi al Fenerbahce, del percorso che ha fatto in NBA, dello sport in pandemia e del suo mondo fuori dal parquet.
A cura di Vito Lamorte
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Gigi Datome è uno dei giocatori di pallacanestro italiani più forti di sempre e da qualche mese è tornato a giocare in Serie A. Un ritorno accolto con grande piacere da tutti gli appassionati ma soprattutto dai tifosi dell’Olimpia Milano, con cui sogna di arrivare in fondo all'Eurolega (stasera gara 3 dei quarti di finale con il Bayern Monaco) e ha già portato a casa la Coppa Italia 2021. Questo ragazzone classe 1987 è diventato il secondo miglior italiano di sempre in Eurolega ma non si pone limiti per questa stagione e per il suo prossimo futuro con la squadra più titolata d'Italia, tra le più vincenti in Europa. L’ala di Montebelluna ai microfoni di Fanpage.it ha parlato del suo percorso nel basket, dagli inizi fino ad oggi; del suo passaggio in NBA, di Nazionale, dello sport in pandemia e del suo mondo fuori dal parquet.

Come va il ritorno in Italia? La Serie A è cambiata molto da quando l'hai lasciata? 
"È una situazione molto particolare, lo sappiamo tutti, ci sono delle piazze nuove ma mancano diverse piazze del Sud, purtroppo. È un momento un po’ così, aspettiamo momenti migliori. Quello che vedevo da fuori era grande passione che si tramutava in palazzetti molto calorosi e partite appassionanti. Manca il pubblico per ovvie ragioni ma non è così diversa da come l’ho lasciata 7-8 anni fa".

Cosa vuol dire giocare in un palazzetto vuoto e cosa lascerà il basket in pandemia?
"Purtroppo ci stiamo abituando. All’inizio era un po’ strano perché si sentono i consigli dalla panchina o le comunicazioni sul campo che spesso venivano coperte dal pubblico. Manca un pezzo grosso del nostro sport, manca il contatto con i tifosi e quella sinergia di adrenalina e emozioni che le due parti si scambiano. Poi, ovviamente, la competizione perché sono sempre partite importanti ma lo zoccolo duro di ogni sport è ciò che sta intorno e il basket è uno di quegli sport dove il tifo è parte dello spettacolo".

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Prima di arrivare a Milano il percorso è stato lungo: com’è nata e come è cresciuta la tua passione per il basket?
"È nata che neanche me ne sono accorto perché ero piccolissimo. Mio padre era il presidente della Santa Croce Basket Olbia e il tempo libero lo passavo sempre al palazzetto a giocare con mio fratello e mio cugino. Poi piano piano sono arrivate le chiamate nelle rappresentative regionali sarde e poi in quelle nazionali. In seguito c’è stato il passaggio a Siena e lì ho provato a fare il professionista e a capire se questa era la vita per me. Da quando sono andato lì sono passati un po’ di anni, 18, e sono successe tante belle cose".

Una volta hai detto: “Un grande cestista è prima di tutto un grande pensatore”. A te la palla.
"Mi piace pensare questo perché ci alleniamo per curare un movimento, la tecnica, ma poi si va in partita e li succede l’imprevedibile. Devi riuscire a capire come le difese si adattano e agire di conseguenza. Devi farlo in una frazione di secondo, quasi in automatico, ma per fare certe cose devi riconoscerle, devi reagire per cercare di trarre vantaggio da ogni specifica situazione".

Sei un ‘perfetto’ giocatore di Eurolega, mentre in NBA hai avuto meno fortuna. Ci sono delle caratteristiche che rendono un giocatore più adatto nella competizione europea e meno nella lega americana?
"Penso che dopo i miei due anni in NBA dovevo scegliere se continuare quel percorso e ritagliarmi un ruolo nelle rotazioni da giocatore negli USA oppure andare al Fenerbahce per cercare di essere protagonista di un campionato importante e cercare di vincere qualche trofeo. L’obiettivo NBA lo vedevo un po’ fine a se stesso mentre l’altro mi ha galvanizzato di più. Alla fine noi giochiamo per vincere, per divertirci sicuramente, ma il sapore delle vittoria è una cosa diversa. Non avevo la possibilità di farlo in NBA perché non sono così bravo ma c’era la possibilità di farlo in Europa con una leggenda come Obradovic e con altri giocatori fortissimi e mi ha stuzzicato molto quel pensiero. Penso di aver fatto la scelta giusta perché quegli anni a Istanbul mi hanno reso più felice, così come quest’anno a Milano dove abbiamo già vinto due titoli e abbiamo raggiunto i play-off di Eurolega. Penso che questa dimensione sia la migliore per me".

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Perché a Obradovic e Messina non è mai stata offerta una panchina NBA?
"So che a Ettore (Messina) ci è andato molto vicino. Lui ha fatto tanti anni l’assistente prima ai Lakers e poi a San Antonio. Penso che come tanti anni fa c’era un po’ di pregiudizio nei confronti dei giocatori europei continua ad esserci qualcosa di simile verso gli allenatori. Penso che sia qualcosa che debba ancora essere sdoganato. Sono convinto che ci sono tanti europei che possano addirittura fare meglio con quegli atleti perché abituati in spazi più ristretti e a sfruttare le spaziature. Ci sono degli adattamenti e delle frontiere da abbattere che hanno delle tempistiche, ora aspettiamo che cada verso gli allenatori".

Hai raccontato che Stan Van Gundy ti ha ricevuto a Detroit coi piedi sulla scrivania: cosa non è andato bene nel vostro rapporto?
"Premetto che se in quella stagione, iniziata con quel meeting, mi avesse fatto giocare poteva stare anche nudo (ride, ndr). Però quella è stata la mia prima impressione. Il problema è stato che non mi ha mai dato la possibilità di stare in campo e se meritavo di giocare o meno. I motivi non li conosco. Lì ti dicono questa cosa: ‘Controlla quello che puoi controllare’. E io potevo controllare il fatto di essere un ottimo professionista, di allenarmi bene e di essere un buon compagno di squadra. È stata anche quella una prova, perché stare lì per mesi senza vedere il campo e andare solo in palestra per essere pronto. L’opportunità vera poi è arrivata a Boston. Sono tutte fasi che fanno crescere, speravo che andasse diversamente ma è andata così“.

Qual è stato il momento più significativo della tua carriera?
"Sicuramente la scelta di rimanere a Roma il mio ultimo anno è stata molto coraggiosa. Per chi non lo sapesse, in quell’anno non si sapeva nemmeno se si faceva la squadra, ma quello è stato l’anno in cui ho giocato il miglior campionato della mia vita in Serie A, sono stato premiato MVP e da lì si è aperta la possibilità di andare in NBA. Quell’estate lì sono diventato un giocatore importante della Nazionale e poi sono andato al Fenerbahce, dove abbiamo vinto molti titoli. Quello è stato il momento che ha fatto scattare la mia carriera".

Ci indichi il suo giocatore preferito di sempre e quello che ritieni più forte in questo momento?
"Dico Manu Ginobili. Riconosco che non è il più forte di sempre, perché non è al livello dei vari Jordan, Kobe, Lebron; ma è quello che mi ha sempre trasmesso le emozioni maggiori. Giocatore molto sui-generis, che ha vinto tutto dappertutto e ha fatto un percorso pazzesco. Poi l’ho conosciuto e devo dire che anche a pelle mi ha fatto una bellissima impressione. Il più forte oggi penso sia Lebron James. Avevo questa sensazione anche quando ero in NBA e come giocatore di basket a 360° penso sia lui. Poi c’è qualcuno che è più atletico, qualche altro più realizzatore, ma nel complesso lui è il migliore in questo momento".

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C’è uno sportivo che ti piacerebbe conoscere o che ammiri ma non fa parte del mondo del basket?
"Guardo poco gli altri sport. Ho avuto la fortuna di conoscere campioni di altri sport in qualche evento. Una volta avevo detto Eric Cantona perché è un bel personaggio. Mi farebbe piacere conoscere qualche musicista, tipo Keith Richards dei Rolling Stones".

La Nazionale. Cosa è mancato per vincere o per ottenere certi traguardi nonostante tu abbia fatto parte di squadre importanti?
“Domanda da un milione di dollari. La mia opinione è questa. Gli anni in cui potevamo fare qualcosa di importante erano il 2015, l’Europeo in Francia; e il 2016, il pre-olimpico. Gli altri anni c’erano sempre squadre più attrezzate di noi. Quegli anni in cui non abbiamo fatto il risultato abbiamo perso ai supplementari con la Lituania e con la Croazia, quindi per dettagli. Vuol dire che non abbiamo meritato di andare perché nel basket vince sempre chi merita. Sembra che siano 17 anni di ‘non risultati’ ma la verità è che eravamo attrezzati per vincere soltanto in due occasioni. Gli altri anni non eravamo all’altezza di quelli che poi hanno vinto. Il problema grave è che quando a noi manca un punto di riferimento siamo disperati mentre le altre squadre ne hanno molti altri. Il nostro bacino di utenza è molto ristretto e quando ne mancano uno-due la coperta è molta corta“.

Qualche tempo fa hai ideato l’hashtag #cosaleggegigione: cosa sta leggendo in questo periodo?
"Ho finito “Il signore delle mosche” di William Golding e da pochissimo ne ho terminato un altro bellissimo che consiglio a tutti: si chiama “Niente” di Janne Teller, era da tanto che un libro non mi colpiva così".

"I mitomani sono la piaga sociale del secolo". Come siamo messi in questo periodo?
"È una battaglia che porto sempre avanti con spirito di sacrificio. Ho sempre notato questa tendenza di molte persone di vantare fatti, conoscenze, accadimenti mai esistiti per autocelebrarsi e impostare uno status che non esiste e di cui non si sente nemmeno il bisogno. Con l’esperienza li riconosco subito, dalle prime parole. Ormai sono uno specialista. Siamo tutti dei mitomani, anche io: riconosco della mitomania in me ma bisogna fare di tutto per eliminarla. Sono un sognatore".

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Dopo essere diventato il secondo miglior italiano di sempre in Eurolega, quali sono gli obiettivi per questa stagione?
"Da qualche anno ormai quando la squadra raggiunge gli obiettivi prefissati io sono contento ed è contenta la piazza insieme a tutto l’ambiente circostante. Queste cose vengono dopo. Davanti a me, in merito a questa statistica, c’è Basile che è un mio idolo assoluto. Essere secondo a Basile va anche bene ma è abbastanza vicino e chissà che il prossimo anno non riesca a raggiungerlo".

State facendo un grande lavoro contro tutti i tipi di discriminazione con la EuroLeague Players' Association (ELPA): si parlerà anche di questo nel convegno del 29 maggio?
"In quell’occasione ci focalizzeremo sulla performance e condividere un po’ di nozioni sul basket. Da giocatori ci teniamo a fare il nostro per far si che cresca sempre più la conoscenza sul gioco. In merito alle tematiche sociali siamo sempre presenti e sensibili e quando possibile facciamo sentire la nostra voce. Abbiamo fatto dei progetti in merito perché il basket è una delle cose più inclusive, dove non ci sono discriminazioni di nessun tipo e in cui parliamo la stessa lingua pur provenendo dagli angoli più disparati del mondo. Giacché ultimamente stanno accadendo tanti episodi atroci sia dal punto di vista del razzismo e per la violenza di genere, usiamo questa piattaforma per sensibilizzare il più possibile su questi argomenti. Mancano dei punti di riferimento e noi proviamo, dal nostro punto di vista, ad esserlo".

Cosa c’è nel futuro di Gigi Datome?
"Interessi tanti e certezze zero. Ho diciotto anni da professionista alle spalle ma non ne ho altri diciotto davanti. Però voglio fare qualcosa che mi dia la stessa energia che ho adesso nell’andare in palestra. Non lo stesso divertimento, perché mi rendo conto che è difficile, ma la stessa voglia di alzarmi dal letto per andare a fare quello che dovrò. L’obiettivo è quello, è banale, lo so; ma la speranza è questa qui".

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