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Peppe Zarbo: “Da anni ho lasciato l’Italia. Franco Boschi ha raccontato mille vite, dovevo staccare”

Intervista a Peppe Zarbo, l’attore siciliano che per più di vent’anni ha dato volto e voce ad uno dei personaggi più amati di Un Posto al Sole: Franco Boschi. Lo scorso ottobre, la scelta di andare via, alla ricerca di nuovi stimoli, già coltivati nella sua carriera, senza mai dimenticare tutto quello che la soap più longeva della tv gli ha regalato.
A cura di Ilaria Costabile
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Quando ci sentiamo al telefono, Peppe Zarbo è in Sardegna, in una giornata che non è delle migliori, ma spera possa cambiare da un momento all'altro. L'attore siciliano ha vestito per ben 26 anni il ruolo di Franco Boschi in Un Posto al Sole, la soap di Rai Tre che, ad oggi, è uno dei prodotti più longevi della televisione italiana. In questo lungo periodo è diventato beniamino di chi, ogni sera all'ora di cena, segue il microcosmo di personaggi che si muovono sulla collina partenopea di Posillipo, destreggiandosi più di altri tra tematiche di grande impatto sociale. Era l'eroe della soap e forse, per gli appassionati, continuerà ad esserlo. Ora la macchina da presa la vede da lontano: "Avevo bisogno di defaticare", ma continua a maneggiare tutto ciò che concerne il mondo dell'arte e dello spettacolo, firmando progetti con la sua casa di produzione (Studio Yubaba ndr.) e, ora, figurando come direttore artistico del Premio Internazionale Donnafugata. Si tratta di un premio dedicato ad attori e attrici che si sono distinti con le loro interpretazioni, la premiazione è prevista per il prossimo settembre e il tema di quest'anno è l'educazione sentimentale: "A volte, soprattutto noi artisti, siamo narcisi, concentrati sui noi stessi e ci dimentichiamo quanto siano importanti le emozioni altrui. Proviamo a non dimenticarcelo".

Iniziamo questa chiacchierata partendo dai luoghi, dove sei in questo momento?

Mi trovo in Sardegna, in un borgo bellissimo del 1600, a Bosa, sotto Alghero. Ho una casa qui con un agrumeto è un posto in cui rilassarmi, staccare la spina. Poi mia moglie è per metà sarda, della provincia di Cagliari, per cui 15 anni fa abbiamo deciso di prendere una casa qui, nella Sardegna non mondana.

Però da più di otto anni vivi a Londra. Come mai questa scelta?

Sono a Londra per merito di mia figlia. Dieci anni fa le proposi di fare un’esperienza all’estero, in Inghilterra, era in quarta superiore, volevo che imparasse bene la lingua. Attraverso l’EF riuscimmo a trovare una famiglia dove lei potesse trascorrere quel periodo, timidamente accettò. Rientrata in Italia ha fatto gli esami per il quarto anno poi si è diplomata, eravamo a Roma, e ha vinto una borsa di studio per l’università a Wimbledon. Sarebbe dovuta ripartire, mia moglie era preoccupata. Avendo io altri due bambini, che all’epoca avevano sette e otto anni, pensai che fosse l’occasione per andare tutti a Londra. Col mio lavoro, invece di fare trasferte Roma Napoli, avrei fatto Londra Napoli.

Un cambio di vita radicale, è stata una decisione coraggiosa. 

Per certi versi è stata una follia. Sono siciliano, di Agrigento, mi sono trasferito a Roma per studiare al Centro Sperimentale di Cinematografia, ho fatto tanto teatro in giro, poi è arrivato Un Posto al Sole, a Napoli, è stata una vita un po’ da zingaro la mia, come quella di tutti gli attori. Non riesco ad immaginare la mia vita in un solo posto. Finché ho la forza, la lucidità, lo stimolo di viaggiare, lo farò. Il viaggio è la cosa più bella che una persona possa sperimentare.

Agrigento, Roma, Londra, non hai mai pensato di mettere radici a Napoli?

Sono stato tentato tante volte di trasferirmi a Napoli, quando fai parte di una serie così, ti viene naturale pensarlo. Amo la città, l’ho vissuta intensamente, ho visto il cambiamento di questi anni con i miei occhi, in 27 anni è cambiata, come è cambiato il mondo, i nostri governi (ride ndr). Sono arrivato a Napoli che c’era Prodi, poi Berlusconi, D’Alema, mi ricordo Piazza Plebiscito piena di macchine per Bassolino, è una città che ha un mondo dentro pazzesco. Ho preferito trovare un compromesso e lavorarci, sono stati anni di grande sacrificio, come per altri miei colleghi, che magari vivevano a Roma o a Milano.

È nata come una passione quella per la recitazione?

Sin da ragazzo mi sono sempre avvicinato all'arte. Quando avevo 17 anni, parliamo dell’82 un altro mondo, ad Agrigento non c'era nulla quindi giocavo a calcio oppure suonavo la chitarra, cercavo una valvola di sfogo. Ho iniziato a fare spettacoli in cui suonavo, ma era più un’esigenza che una vocazione, non è che avessi il fuoco dentro. Piano piano, ho iniziato a fare sempre più cose e così ho abbracciato l'idea di far diventare l'arte il mio lavoro. Volevo dare serietà a questo mestiere, anche perché i miei mi dicevano di lasciar perdere, per cui ho fatto un concorso per entrare al Centro Sperimentale e mi hanno preso. Nonostante tutto ho sempre cercato di tenere i piedi per terra, ho sempre avuto la consapevolezza che questo è un lavoro difficile, quindi mi sono costruito un piano B.

E quale sarebbe, ad oggi, questo piano B?

Ho una casa di produzione, sto sviluppando dei contenuti interessanti per quanto riguarda un film e una serie televisiva. Poi, ho chiuso un accordo per tre anni come direttore artistico di un premio internazionale. L’anno scorso ho ricevuto questo premio (DonnaFugtata ndr.), da lì parlando con l’organizzatore Francesco Bellia, abbiamo lavorato per alzare l’asticella, lui mi ha affidato la direzione artistica e quest’anno faremo anche un workshop con Gabriele Molinari, vice direttore del Museo del Cinema di Torino. Si tratta di un lavoro incentrato sull’educazione sentimentale, saranno presenti anche degli psicologi, credo che questo sia un aspetto che ai giovani interessi e non poco.

Peppe Zarbo con la moglie Eva, al premio DonnaFugata. Fonte Instagram
Peppe Zarbo con la moglie Eva, al premio DonnaFugata. Fonte Instagram

Non hai nostalgia della vita da set, dopo anni trascorsi tra un ciak e l'altro?

Dopo 6200 episodi, 25-26 anni di lavoro con un ruolo centralissimo e molto bello, quello di Franco Boschi, ad un certo punto diventa difficile immaginarsi in altri contesti. Anche nei progetti che ho curato con la mia casa di produzione avrei potuto figurare come attore, ma ho preferito disintossicarmi. Ed è comunque è un lusso.

Perché un lusso?

La mia non è una categoria felicissima, a parte quei 10-15 attori, non è che ci sia chissà quanto lavoro per i miei colleghi. C’è tanta gente, tanti professionisti che fanno fatica.

Lo dicevi prima, 26 anni vestendo i panni di Franco Boschi in Un Posto al Sole. E poi all'improvviso, hai lasciato. Cosa è successo?

Ho continuato questo percorso nella serie perché mi piaceva interpretare quel personaggio, era interessante, fuori dagli schemi di una soap. Un uomo che raccontava storie legate al sociale, con tematiche interessanti, c’era anche dell’action, cosa che in una soap opera non vedi mai, ma questo aveva delle ripercussioni, perché i tempi e i costi di una soap non sono quelli di una fiction. Mi sono ritrovato a girare scene in una notte che magari avrebbero meritato due o tre giorni di lavoro. Diventa quasi una centrifuga, sono 256 episodi l’anno, 5 giorni a settimana, e ti ritrovi dopo tutti questi anni che il tempo è volato. Diventa una storia d'amore nei confronti del prodotto, della città, dei colleghi e come molte storie d'amore inizia e finisce.

Quindi è stata una scelta prevalentemente tua, quella di abbandonare la soap. 

No, siamo arrivati con la produzione a questa scelta. Proprio come in una storia d’amore, bisogna impegnarsi. Ci sono delle responsabilità da entrambe le parti per far crescere una relazione, nei momenti felici, ma anche durante le sfide, i momenti di difficoltà. Dopo anni, una produzione non può fare a meno di andare in una certa direzione, che è quella dei numeri, dove si perde di vista la parte emotiva, creativa.

Dopo 26 anni qualcosa è venuto a mancare. 

Magari all'inizio si tiene conto di alcuni fattori, poi strada facendo, ma è fisiologico, hai bisogno di stimoli, attenzioni diverse e capisci che se la strada che si è imboccata è un’altra, allora la storia d’amore può finire. Senza darsi colpe, magari le aspettative non erano le stesse, questo non significa che le scelte siano definitive. Nulla nella mia vita è definitivo, siamo essere umani e tutto può succedere. Però non lo dico per lasciare porte aperte, semplicemente perché è una cosa che penso.

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Rimpianti?

È un prodotto che farà parte della mia vita per sempre, insieme alle storie che ho raccontato. È una produzione che è riuscita a raccontare 27 anni di costume italiano, mi auguro possa continuare in quella direzione, cercando di dare più attenzione alla parte artistica. Il rischio è che lavorando in un prodotto del genere tu sia invischiato in una bolla, pensi che il mondo sia solo quello, e non è così.

La tua uscita, però, è stata destabilizzante per il pubblico di Upas. Lo sai?

Sì, ma ho maturato un'esigenza. Mi sono detto non voglio invecchiare qui, con questa giacca di pelle, la motocicletta, il salvatore della patria mi stava un po’ stretto. Mi aspettavo dal punto di vista della scrittura degli approfondimenti, ma è chiaro che in un prodotto come Upas la scrittura è come una staffetta tra 18 protagonisti, gli autori fanno i salti mortali per riuscire a mantenere un equilibrio con le storie. Franco aveva raccontato mille vite, la domanda che mi sono posto è "ma quante vite devo raccontare?". Forse è stato meglio uscire quando il personaggio era ancora amato, mi dispiace che il pubblico si chieda quando tornerò, però mi è piaciuto il modo in cui sono uscito di scena, in silenzio, sono andato via come sono arrivato, in punta di piedi.

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In tutto ciò, come è arrivato il ruolo di Franco Boschi?

È arrivato durante gli ultimi spettacoli della tournée con Michele Placido, mettevamo in scena Miller. Mi avevano chiamato per un altro ruolo, ma il mio agente dell’epoca mi adorava e disse che per quel personaggio non avrei accettato. Così si aprì la possibilità di Franco Boschi, un protagonista, un altro attore che era stato provinato non era risultato abbastanza efficace, quindi chiamarono me. Dovevo stare lì tre mesi.

E poi sono passati 26 anni. 

Avevo appena concluso un altro progetto, avevo girato un film in Sud America, ero contento di fare cinema. Sono andato lì, finiti i tre mesi il personaggio è piaciuto tantissimo, quindi ho confermato per un anno, ma ero sicuro che sarei andato via, non pensavo mica che sarei rimasto 26 anni, non rientrava nelle mie previsioni.

In effetti Un posto al sole è il prodotto italiano più longevo della tv, non è scontato. 

Ma forse neanche la produzione della soap pensava che sarebbe stata in grado di durare così tanto tempo. Senza nulla togliere alla produzione, intesa come macchina che deve cercare di bilanciare tutto, ma gli attori secondo me sono stati eroici, tutti, perché abbiamo dato tantissimo. Ci abbiamo messo non solo la faccia, il cuore, il sangue, tutto. Abbiamo cercato di portare questo prodotto ad un livello attoriale e narrativo che è quello che è oggi. Quando sono entrato, gli attori che avevano scelto avevano comunque un background professionale importante, non erano improvvisati.

Pensi che adesso ci sia un'inversione di tendenza? Sono più gli attori con poca struttura che il contrario?

Questo è un mestiere dove non ci vuole una laurea in medicina, non hai delle grandi responsabilità, devi comunicare delle emozioni, quindi se lo fai e questa cosa arriva, allora non è necessario aver fatto una scuola, se l’hai fatta è meglio perché devi capire, soprattutto nella lunga serialità, come resistere nel tempo, usare dei metodi interpretativi misurati. Ho visto colleghi che negli anni hanno frainteso questo prodotto, trattandolo come se fosse un film, le cui riprese durano mesi, ed entrare nel personaggio così tanto da scoppiare. Bisogna trovare degli equilibri, quando sei in scena metti il tuo costume, finito di girare devi lasciare il personaggio, altrimenti si perde il senno.

Non hai mai temuto di poter essere fagocitato dal tuo personaggio?

La mia vita è sempre stata movimentata dal punto di vista logistico, anche dal punto di vista personale, familiare. Il mio personaggio non poteva intaccarla, se non per alcuni punti in comune tra noi, come il sentimento di giustizia, di lealtà.

Vorresti che ci fosse un tuo erede in Un posto al Sole? Forse Nunzio (Vladimir Randazzo ndr.) è quello che più si avvicina al Franco Boschi degli inizi. 

Vladimir è un attore molto sensibile, con lui ho dovuto fare un lavoro molto intenso. Arrivava dai casting, perché il personaggio di Nunzio lo interpretava Vincenzo Messina. Mi auguro, però, che gli autori non cerchino di fare come si dice a Napoli, “un pezzotto” di Franco Boschi, perché Vladimir è un bravo attore, ha delle corde particolari, poi quello che ognuno mette nei personaggi è molto soggettivo. Soprattutto in un progetto così lungo gli autori attingono anche dalla tua personalità, quindi spero che creino una storia che sia solo sua.

Peppe Zarbo e Vladimir Randazzo
Peppe Zarbo e Vladimir Randazzo

E tu che rapporto avevi con gli autori, hai mai interferito con le loro scelte?

Avendo una memoria del personaggio, quando vedevo che alcuni risvolti narrativi erano simili a cose che avevamo già raccontato, cercavo di renderle diverse, altrimenti ero il primo ad annoiarmi. Ho sempre cercato di trovare punti di vista nuovi, erano lo stimolo per poter andare avanti, altrimenti si finiva col timbrare il cartellino e ripetersi. Però gli autori sono bravi, prendendo spunto della vita reale, poi Napoli è un palcoscenico strepitoso, straordinario, in termini sia di scenografia, che di storie.

Ora che vivi in Inghilterra, avrai potuto toccare con mano come attori protagonisti di lunga serialità siano delle vere e proprie star. In Italia c'è ancora un certo snobismo da questo punto di vista, ti sei dato una risposta sul perché accade?

Intanto l'Italia non ha una grande industria di cinema e televisione, mi rendo conto anche con queste serie nuove, gli attori sono un po’ cannibalizzati, alcuni non hanno grandi esperienze e vengono catapultati in questo mondo. Però la differenza primaria la fanno i soldi, c’è un mercato completamente diverso e qui c’è uno snobismo da parte delle produzioni. Gli attori italiani di punta sono sempre gli stessi, attori che apprezzo e stimo, ci tengo a sottolinearlo, però questo significa che si fa parte di un giro. Ad esempio Un Posto al sole è stato sempre considerato un prodotto prima di serie C, poi di serie B, sebbene sia visto ovunque.

Cosa manca alle produzioni italiane per differenziarsi? Coraggio?

Credo sia anche un problema dei registi che oggi non hanno, a parte qualcuno, forse Sorrentino, Garrone, Virzì, probabilmente Tornatore, non hanno quell'autonomia e quella forza di scegliere gli attori. Molti progetti purtroppo si fanno a tavolino dove hai necessità di chiudere un budget, una distribuzione, allora se c’è Riccardo Polizzy Carbonelli anche se bravissimo, non lo scelgono perché potrebbe non garantire la distribuzione e la vendita del film. L’Italia è un paese piccolo.

Peppe Zarbo e Riccardo Polizzy Carbonelli, fonte Instagram
Peppe Zarbo e Riccardo Polizzy Carbonelli, fonte Instagram

Qualcuno dei tuoi figli ha vorrà seguire le tue orme?

Mia figlia si è laureata, è anche appassionata di nuoto e quindi al momento fa l'allenatrice. I due maschi dipingono, fanno sculture, suonano la chitarra, sono molto creativi. Però, sai che c'è? Hanno visto un padre attore sempre con questo trolley avanti e indietro, gli poteva sembrare strano che mi riconoscessero per strada, erano divertiti, ma hanno visto un grande sacrificio da parte mia.

Ti dispiace l'esserti perso qualcosa di loro?

Adesso sto recuperando, per fortuna, ed è per me una grande gioia. Ma non ho rimpianti, perché ho sempre amato il mio lavoro, mi ha permesso di far stare bene la mia famiglia, di offrire loro delle possibilità.

Spesso in questa chiacchierata è venuta fuori la parola sacrificio. Cosa pensi di aver sacrificato?

Dico sacrificio perché Un posto al sole è una macchina da guerra, avevamo un programma quotidiano pesantissimo, il mio era un personaggio che non si limitava a stare in studio, facevo scene d’azione, giravamo 18 scene alla volta, per episodi di 27 minuti, in tre giorni avevi praticamente girato un film. In tutto questo devi cercare di dare credibilità alle scene, provare a portarle a casa nel modo migliore possibile. Però è un gruppo di lavoro straordinario, affiatato. È importante puntare sempre sul benessere di chi lavora ad un prodotto di questo tipo. Un’azienda che si occupa della felicità di coloro che lavorano, è un’azienda che si assicura un lavoro fatto bene. Le cose funzionano perché se vinciamo dobbiamo vincere tutti, se perdiamo ci vogliamo bene, abbiamo dato il massimo.

E ora, quali sono i tuoi prossimi progetti?

Se c'è una cosa che non farò, senza dubbio, è il regista, non fa per me. Ma continuerò a lavorare nel settore del cinema, della televisione, della cultura, mi piacerebbe continuare sulla strada del direttore artistico, del produttore. Scelgo progetti dove ci sia questa voglia di lavorare bene e insieme, che possano essere sia utili che gratificanti dal punto di vista personale, ma anche in senso più ampio. Poi, ho capito una cosa negli anni.

Ovvero?

Mi sono accorto che tutte le cose che ho costruito e volevo belle per me, per gli amici, allora diventavano attrattive anche per gli altri. Anche nel lavoro è così, devi fare qualcosa che sia bello, inizialmente per te, poi hai la capacità di farlo apprezzare anche a chi ti circonda, come sempre è la passione che metti nel fare le cose, a farle brillare.

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