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Gugliemo Scilla: “Potevo vendicarmi del bullo che mi ha dato del froc*o e non l’ho fatto, ne vado fiero”

Intervista a Guglielmo Scilla, volto noto e amatissimo di Youtube e dei social, che racconta come l’aver capito che accettare se stessi, con le proprie fragilità, sia un valore aggiunto, anche quando si è stati vittime di bullismo. La narrazione dell’essere invincibili e perfetti è un qualcosa che non gli appartiene.
A cura di Ilaria Costabile
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In un periodo storico in cui siamo sempre iperconnessi, con le vite immaginariamente collegate le une alle altre, saper parlare e raccontare le proprie fragilità, accettarle, ma soprattutto rivendicare l'importanza di essere autentici, non è cosa da poco. Guglielmo Scilla, che su Youtube ha mosso i suoi primi passi con il nome che in molti ricorderanno, Willwoosh, è uno di quei personaggi che anche tramite i social, servendosi dell'ironia, non ha mai smesso di raccontarsi in maniera schietta, perché l'idea di poter ricevere delle critiche per qualcosa che non appartiene alla sua persona, non potrebbe tollerarla.

Accettarsi e accogliersi è alla base di qualsiasi percorso, soprattutto dopo esperienze che hanno minato la fiducia in se stessi, come il bullismo, che il creator 36enne ha subito da ragazzino. Un'esperienza paralizzante che, però, gli ha dato modo di capire che, in realtà, essere invincibili non è la chiave per non soffrire, anzi, spesso sono le parti più frangibili di ognuno di noi, a rappresentare un valore aggiunto, anche se spesso tendiamo a non riconoscerglielo.

Partiamo dal tuo format, Vita Buttata, ormai da anni su Youtube. Già dal nome si intuisce che è un modo per ridere dei "disagi" della tua generazione, insieme ai personaggi noti che ti hanno accompagnato. Qual è secondo te una cosa che dopo vari racconti ci accomuna tutti?

Non so quanto sia generazionale, ma la cosa che ci accomuna tutti è il fatto di avere uno scheletro nell'armadio. Ognuno di noi ha una storia che non vorrebbe raccontare.

Quindi l'obiettivo è un po' riconoscersi nelle storie inconfessabili degli altri?

È voler dare stimoli, attraverso delle domande che ci portano a scoprire quel terribile scheletro nell’armadio. Quindi che sia una puntata sulle sfighe, che sia una puntata sugli ex catastrofici, sulle menzogne, è divertente e interessante perché le persone hanno molti più aneddoti nascosti di quanto solitamente pensiamo.

Il nome del format, però, è significativo. Cosa significherebbe "buttare la tua vita"?

Guardarsi indietro e rendersi conto che le cose belle non le abbiamo vissute al meglio e le cose tristi non ci hanno insegnato nulla.

Sei stato uno dei primi a capire le potenzialità offerte dalla rete. A proposito di insegnamento, cosa hai imparato in questi anni di presenza costante tra YouTube e social?

Ho imparato che non puoi mai avere il controllo. Il modo migliore per muoversi sui social e fuori dai social, è quello di essere aperti a quest'onda, che a volte diventa anomala, altre si appiattisce, senza mai avere la presunzione di prevedere come gestirla.

I social, regno in cui ognuno sente di potersi esprimere, spesso senza pensare alle conseguenze. Che peso hai dato in questi anni al giudizio degli altri?

Non do peso al giudizio degli altri, do peso al valore di quel giudizio. Cerco di distinguere quando il motivo per cui mi tocca ha un fondo di verità, per cui potrebbe diventare un insegnamento, magari espresso male, quindi cerco di prenderne il buono, ma altre volte cerco di capire se è semplicemente una cattiveria, o un abuso che va a toccare le mie fragilità.

E cosa succede quando ti rendi conto che tocca le tue fragilità?

Cerco di dargli un peso relativo, per quanto sia difficile, perché bisogna anche smetterla di dare più peso ad uno schiaffo che a una carezza. Abbiamo tante persone che ci dicono cose meravigliose, ma poi ci soffermiamo sull’unica che ha qualcosa contro di noi, è sputare in faccia alla gentilezza. Quell’unica volta in cui qualcuno è stato cafone, magari ha anche sbagliato, non può avere una corsia preferenziale. Possibile sia l'unica cosa che ci rimane?

Il fatto di dare peso a chi ci critica potrebbe avere a che fare con un'idea di perfezione che vorremmo raggiungere?

L'attenzione nei confronti delle critiche non credo sia legata al concetto di perfezione, bensì al controllo della propria immagine, di come siamo percepiti. La perfezione non esiste e non vende nemmeno. Siamo in un periodo in cui l'output non ha più importanza, ogni cosa può essere strumentalizzata, piegata, distorta ed è impossibile pensare di avere il controllo su come possa essere recepito un messaggio. È utopistico.

Con l'immagine e con la percezione altrui ormai ci convivi, fa parte del tuo lavoro. Questo meccanismo ti ha mai portato a subire una pressione più forte di quella che avresti voluto?

Sì, ma entro certi limiti, ora non più. Credo che chi vive male i social, il giudizio sulla propria immagine e su ciò che dice è destinato a vivere malissimo. Per questo motivo credo che la cosa migliore sia sempre regalare un'immagine più vicina a se stessi, così se qualcuno dovesse mai criticarla, avrà da dire su chi sei, e nel momento in cui qualcuno critica chi sei, le alternative sono due: ascoltarlo o non ascoltarlo. Dipende da quanto la critica sia effettivamente valida per te.

Sui social si rischia di distorcere la propria personalità secondo te?

Chi utilizza i social in maniera tale da rendere distante ciò che mostra da ciò è realmente, impazzisce, perché crea degli standard che sono impossibili da raggiungere. La chiave è di trovare un modo per dare un’immagine attinente di se stessi, l’alternativa sarebbe essere criticato per ciò che non sei. Te lo immagini? Oltre al danno anche la beffa!

E tu come hai imparato ad accettarti?

Per assurdo Youtube è stata una grandissima palestra di auto-accettazione. Ero un adolescente molto insicuro e timido, il fatto di aver avuto tante persone che mi seguissero e un sostegno così caloroso, mi è stato d'aiuto, ho iniziato a vedermi con gli occhi degli altri. È una cosa che dovremmo imparare, utilizzare gli occhi di chi ci vuole bene, di chi ci apprezza, chi ci guarda dall'esterno e sostituirli con i nostri. A volte funziona.

A proposito di accettazione, nel 2017 diventa virale il video del tuo coming out, che dici essere arrivato dopo un percorso di consapevolezza. C'è stato qualcuno su cui hai potuto contare per accogliere quelle parti di te che magari facevi fatica a riconoscere?

Nel mio percorso sono stato molto solo, quando si è all’interno di una società che ha uno stigma nei confronti di determinate persone o determinate indoli, hai paura di fidarti della persona sbagliata o che la gente possa deluderti. Nel mio caso ho provato a cavarmela da solo, mi ha aiutato il fatto che le persone alle quali tenevo di più mi siano state di sostegno, mi hanno aiutato a minimizzare ciò che la società mi aveva fatto percepire come un problema enorme. Rimane un problema enorme, per gli altri, non più per me.

E superato questo scoglio, ad oggi qual è la tua paura più grande?

Non so quanto possa sembrare oscuro, ma la mia paura più grande è e sarà sempre la morte. Finché non c’è game over, puoi continuare a giocare i livelli della vita finché vuoi.

Perché temevi di mostrare questo lato oscuro?

Tendo ad essere sincero, sempre, per il discorso di cui sopra, se dovessero criticarmi almeno è qualcosa che penso. Quindi lo rivendico. Credo che molta gente non dica quello che pensa e si ritrovi all’interno di vortici, che obbligano loro a vivere una vita così poco autentica, che confondono con quello che poi in realtà sono. Anche questo è un mio terrore. Vedo le persone che vivono così e mi fanno molta tristezza.

Pirandello le chiamava maschere, per alcune persone è facile nascondersi nella società piuttosto che venire allo scoperto.

Non è nemmeno troppo facile. La nostra società è molto più subdola, siamo portati da determinate condizioni culturali e soprattutto economico-sociali, a restringerci all’interno di binari che ci portano in tutti i posti del mondo, tranne quello in cui vogliamo andare.

La Generazione Z la definiscono la "generazione ansia", ma anche i millennial non scherzano. Tu che rapporto hai con l'ansia?

Devo dire che l’ansia non è una problematica con la quale combatto. Quando tengo molto a qualcosa, posso avere il batticuore, ma la mia è un’ansia positiva è sempre legata a contesti che possono essere l’amore, il palco, provini a cui tengo, la scrittura. È una voglia di far bene, che a me dà forza, non distrugge, non è patologica. Di ansia si parla spesso in maniera non consapevole.

Il benessere psicologico è un qualcosa che dovrebbe interessare tutte le generazioni, ma non sembra essere così, perché?

È una tematica che ci sta insegnando la generazione Z, c’è una grande forbice tra i millennials che stanno sempre un po’ in mezzo, siamo una generazione di passaggio e i boomer che sono la generazione del sottovuoto. Vedo tante persone che hanno accettato il loro ruolo, quello che doveva essere il loro destino, è una generazione rassegnata e non lo sa. Sono prigionieri di una cultura, che noi cerchiamo di togliergli da sotto i piedi e che loro cercano di fermare, come si fa con i tappeti.

A proposito di benessere mentale, in questi anni hai avuto la necessità di fermarti perché sovrastato da troppe cose? 

Sì, ho avuto un paio di time out, perché non amo il contesto iper-performativo nel quale ormai viviamo. Ci viene chiesto tanto, ogni giorno, di essere i primi della classe, di essere pazzeschi, devi essere quello che fa il commento più intelligente di tutti, a volte anche solo per parlare apriamo la bocca, ma non sappiamo che dire. È capitato in passato che io non sapessi più cosa dire, o di dover respirare un attimo in più, creare contenuti era diventato un peso, più che una fortuna, e perciò ho deciso di prendermi delle pause, sono sempre state seguite da bellissimi momenti. Non c’è niente di male nel sedersi un secondo e prendere fiato.

Siamo la società della performance d'altra parte, ma a volte pur di produrre è l'emotività a risentirne.

Ed è anche una cosa impossibile da fare. È come chiedere a una persona sott’acqua di respirare, ma pensare ad una cosa mentre ne stai facendo un’altra non è salutare. Questo elogiare il multitasking, elogiare persone che non sono più persone ma cerotti sociali, iper bravi a gestire qualsiasi tipo di problema, dei robot. Non è una cosa che fa per me.

Cosa significa per te stare bene?

Stare bene, ad oggi, è rendermi conto di starci. Sono stato bene tante volte nella mia vita, ma in quei periodi non mi prendevo il tempo di rendermene conto. Per me stare bene, quindi, è molto legato al vivere l’adesso, a riuscire a non catapultarmi nel futuro con l’angoscia di controllarlo e guardare al passato guardandolo senza rimpianto.

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Quale credi sia il gesto più coraggioso che hai fatto?

Non so se è il più coraggioso, però è un gesto di cui sono orgoglioso. Quando ho avuto la possibilità di prendermi una rivincita su un ragazzo che mi insultava alle medie, mi dava del froc*o, un bullo vero e proprio, che aveva rimosso di essere stato un bullo, perché è venuto da me con un gran sorrisone, non mi sono vendicato.

Nel senso che avresti potuto dirgli qualcosa, ma hai preferito non farlo?

Avrei potuto dirgli di tutto e di più a quel punto, però sono contento di non averlo fatto. Non so dire se sia coraggio, un gesto coraggioso implica l'essere intimoriti da qualcosa, l’altra faccia del coraggio è la paura. Non so se sono abituato alla paura o se invece sono sempre stato un grandissimo codardo.

Adesso hai scelto di non rispondere prendendoti una rivincita, ma negli anni in cui hai subito insulti e atteggiamenti sgradevoli, hai mai avuto l'istinto di reagire?

Mai. Era paralizzante, quando hai 13- 12 anni sei un bambino, quando una persona davanti a tutti cerca di mortificarti, è un atto violento e devastante, soprattutto se ha ragione.  Se all’interno della violenza si nascondono delle verità che tu non sei nemmeno pronto a raccontare, l’ultima cosa che fai è metterti il mantello e la mascherina da Superman. Per cui no, anzi, e ben venga dirlo, sono anche stanco di questa narrativa del sentirci in colpa quando chi vuole schiacciarci ci schiaccia, purtroppo succede.

Col sentirsi in colpa intendi che passa il messaggio per cui siamo stati complici di quel gesto?

Siamo stati deboli, non abbiamo reagito, non abbiamo dato i famosi due pugni che avrebbero assestato la persona in questione. Quando si è vittime la domanda è: dove stanno le persone che difendono le vittime? Perché le vittime che si difendono non siamo sempre noi. Io avrei voluto sparire, non dover più incontrare quelle persone, non dover più gestire quelle situazioni, scappare. Davanti ad un incendio in casa, non è che ti metti lì con un bicchiere a cercare di spegnerlo.

Bisognerebbe normalizzare l'idea che, a volte, anche il dolore è una forma di reazione. 

Non tutti possono empatizzare con determinate sensibilità, perché non tutti hanno avuto la fortuna di avere qualcosa di fragile da dover custodire, quando gli altri cercano di calpestarlo e lo calpestano, lo frantumano. Invidio chi ha questa capacità di reazione, questa forza. La storia ci racconta che la maggior parte delle persone viene schiacciata e a volte si toglie anche la vita.

Una bella immagine quella della fortuna di avere qualcosa di fragile da custodire.

Ma molti non ce l’hanno, altrimenti riuscirebbero ad empatizzare. Chi non ha qualcosa di fragile da custodire, non riesce a comprendere come possano esistere determinate cose che hanno bisogno di essere gestite con cura. Viviamo in una società dove, soprattutto per i maschi, si è soliti indirizzarli: “dai svegliate, fai l’omo non fa la femminuccia, stringi i denti e vai”.

Siamo incastrati in ruoli che non ci appartengono?

Siamo incastrati nell’ideologia di questi superuomini e superdonne che ci hanno raccontato, e posso dirti? Rimangono super anche quando non sorridono sempre, trovo molto più coraggiosa una persona che si rompe e lo mostra, rispetto ad una persona che è sempre tutta d’un pezzo, perché vuol dire che si rompe a casa ed è lì che raccoglie i cocci. Trovo molto coraggioso normalizzare le sfide, le cadute, i fallimenti, gli stati d'animo più bui, e normalizzare anche il fatto che con un bullo puoi perdere, anzi, sicuramente perdi. Altrimenti non sarebbe un bullo, sarebbe uno che ci ha provato.

Vogliamo dire, una volta per tutte, che essere invincibili non è un traguardo?

Certo che lo diciamo! Le persone che dicono di essere invincibili si stanno mentendo, perché sia chiaro, nessuno è invincibile. Quando ci troviamo davanti ad una persona che lo sembra, dobbiamo chiederci dov’è che nasconde le sue fragilità. Quando leggo alcuni commenti mostruosi, mi chiedo dove e in che modo quelle persone abbiano spento o nascosto le loro debolezze, che non è una brutta parola. Perché non ci posso credere che ci sia gente che gioisca nel vedere altre persone soffrire, è qualcosa che non posso accettare.

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