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Comandante, Edoardo De Angelis: “L’arte è un atto pubblico, il mio è un film politico”

Intervista ad Edoardo De Angelis, regista di Comandante con Pierfrancesco Favino, al cinema da martedì 31 ottobre. “L’arte è un atto pubblico”, ha spiegato, “e, come tale, il mio è sicuramente un film politico”.
A cura di Gianmaria Tammaro
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Comandante di Edoardo De Angelis, scritto con Sandro Veronesi e al cinema dal 31 ottobre con 01 Distribution, è un film che racconta due viaggi. Uno, evidente e alla luce del giorno, dell’equipaggio di un sommergibile durante la seconda guerra mondiale. L’altro, più nascosto e intimo, ancorato ai pensieri e alla morale di un solo uomo. È una storia che si divide tra spazi ristretti, piena di primi piani, di silenzi e del contatto dei corpi.

In parte, è figlia del teatro e dell’esperienza che De Angelis, in questi anni, ha fatto lavorando alle opere di De Filippo. E in parte, ovviamente, è grande cinema: perché non ha paura di sperimentare, di ricreare i luoghi e gli strumenti, perché dà uno spessore preciso alle scene e al dramma e permette agli attori – tutti, a cominciare dal protagonista interpretato da Pierfrancesco Favino – di trovare la propria dimensione.

Comandante, dice De Angelis, è un film politico. Perché l’arte, che è un atto pubblico, è politica. E le due cose non si possono né separare né allontanare. Comandante, però, è pure uno studio dei corpi e della loro consistenza, della fisicità come mezzo espressivo e slancio riflessivo. Come hanno fatto tanti autori e autrici in questi anni, anche De Angelis si è ritagliato un angolo di mondo per esplorare la coscienza umana, le sue contraddizioni, il significato che a volte diamo a determinati comportanti.

Il film è tratto da una storia vera e parla di un uomo realmente esistito. Non per questo, però, cade nella facile retorica di ritrarlo come un eroe senza macchia, un individuo invincibile e invidiabile. Mostra ogni cosa: eccessi, storture, limiti. Scandaglia, fotografa, analizza. E viviseziona, sotto i riflettori del cinema, la nostra coscienza. Ci spiega, chiaro e tondo, che talvolta non esistono bianchi e neri, ma solo grigi. Che in guerra si combatte e che alla fine, dentro di noi, resiste un pugno di sentimenti e buone intenzioni che non dovremmo mai cedere via. Comandante sembra lontanissimo dalla filmografia precedente di De Angelis, e invece ne riesce a catturare l’essenza. Da un lato la sperimentazione tecnica e di linguaggi; dall’altra, la consapevolezza che la differenza in una scena la fa saper cogliere l’attimo.

Che cosa l’ha attirato di questo personaggio, tanto da voler raccontare la sua storia?

Intanto mi piaceva il modo in cui lui intendeva la forza. Mi affascinava una delle sue espressioni ricorrenti: io affondo il ferro, diceva, ma l’uomo lo salvo. Era un militare che, nell’azione di guerra, non si faceva nessuno scrupolo; era pronto a compiere quello che la guerra gli chiedeva. Allo stesso tempo, davanti a un uomo inerme, era capace di fermarsi e di ricordarsi che anche in battaglia esistono, depositate nella coscienza di ognuno di noi, delle regole che non vanno infrante.

E quindi?

Quindi era capace di esercitare la sua forza anche come aiuto, come soccorso. Questa è la declinazione di forza che ritengo più elevata e più desiderabile, e che fa di un uomo come lui, pieno di macchie e debolezze, un modello da seguire. Non è così assurdo esercitare la forza come soccorso. E non è così impensabile aiutare.

Un altro aspetto particolare di Salvatore Todaro è il suo essere perennemente in bilico tra la durezza della vita e la promessa di un futuro avvolta dal misticismo e dal sovrannaturale.

Personalmente, tra questi due aspetti non ho trovato nessuna contraddizione. Se ci riflettiamo bene, il mistico non è altro che un uomo che osserva gli altri esseri umani con grande attenzione. E allo stesso modo osserva ciò che lo circonda, compresa la natura in tutte le sue manifestazioni. Nella carne dell’essere umano e nell’essenza della natura, è incastonato qualcosa di magico, qualcosa che erroneamente definiamo fantasia. È quel frammento che sta nascosto nella realtà più vera. Il mistico ammette i propri limiti, i limiti dell’umanità, e nell’ammissione di questi limiti nasce la capacità di guardare oltre il materiale. L’attitudine alla preghiera resta un’attitudine profondamente umana.

Come ha trovato Pierfrancesco Favino? Ha sempre pensato a lui per il ruolo da protagonista?

Il rapporto con Favino è qualcosa che si è costruito nel tempo. Si è sedimentato. Ed è un rapporto che è diventato importante proprio perché non ha mai avuto dei momenti di eccesso, né da un lato né dall’altro. C’è sempre stato un enorme rispetto con la giusta distanza. E alla fine si è creato un incontro all’insegna dell’esplorazione di ciò che era ignoto per entrambi, di ciò che non era sicuro, che era senza rete e andava al di fuori dello sperimentato.

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In questo film, è fondamentale la dimensione teatrale: spazi ridotti, molti faccia a faccia tra i personaggi; la centralità dei dialoghi. È una cosa che deriva un po’ dalla sua esperienza con le opere di De Filippo?

È impossibile relegare qualunque esperienza all’oblio totale. Ogni esperienza, in qualche modo, genera la successiva. E questo è un meccanismo che riguarda l’essere umano in sé. È uno degli elementi centrali della mia ricerca cinematografica. Lo spazio, per me, è importantissimo. Genera buona parte delle emozioni. In Comandante, durante tutta la sequenza precedente all’arrivo a La Spezia, ho scelto inquadrature del tutto fisse. Ed è un linguaggio che io non utilizzo mai.

E perché ha fatto un’eccezione questa volta?

Perché volevo far sentire la simmetria, l’ordine, qualcosa che di lì a poco si sarebbe andato a rompere. Le inquadrature sono messe insieme nel tentativo costante di bilanciare tutti gli elementi. E questo equilibrio viene spaccato non appena troviamo il sommergibile. E ritorniamo a una modalità di ripresa che, al contrario, uso spesso.

Che modalità è?

Una che prevede sequenze lunghe, molto respirate, e che prevede anche l’incursione imprevista di un ritardo o di un anticipo rispetto a quello che sta avvenendo. Nelle scene, secondo me, deve essere tutto un po’ fuori tempo. In questo modo, possiamo catturare più da vicino la vita. Lo spazio dove si va a indagare subito dopo l’immersione è uno spazio cieco: la visione si costruisce attraverso l’udito, attraverso il ricordo, attraverso l’evocazione di quello che non c’è.

Nella limitatezza dello spazio delle scene, non ha trovato una barriera insuperabile?

È una cosa che ha fatto preoccupare molte persone, non lo nascondo. Ma per me è sempre stato un grandissimo detonatore di emozioni. Quindi no, nessuna barriera: è stata una possibilità.

Un altro protagonista di questo film è il corpo.

Raccontare i sommergibilisti mi ha dato modo di spogliare i personaggi di qualunque divisa. La gerarchia è presente, ma non viene mai sottolineata. E la divisa viene indossata unicamente quando si scende a terra. Dentro, fa troppo caldo. Il corpo nudo, privato di qualunque copertura, mostra le sue imperfezioni e il suo dolore. E per il dolore non è altro che un modo per esprimersi ed esprimere la propria umanità.

È così importante?

Anche quando cerco un collaboratore se non sento dolore non sento niente. Quella che mi segue, in un certo senso, è una banda di addolorati. Allo stesso tempo, però, sono persone animate da una assurda e ostinata gioia vitale.

Comandante è un film politico? O la politica va distinta dall’arte?

Non c’è nessuna distinzione tra arte e politica. L’arte è un gesto pubblico e in quanto tale è un gesto politico. È un gesto che richiede un’assunzione di responsabilità rispetto alla visione del mondo che mostra e propone, ed è un gesto che può avere degli effetti. Effetti, preciso, anche imprevedibili. Ritengo il gesto cinematografico un gesto estremamente politico.

Che tipo di esperienza è stata quella di dirigere un gruppo di uomini in uno spazio del genere, così ristretto?

È stato molto divertente. È innegabile che questo film sia costato quanto dieci dei miei film precedenti. Eppure il modo di costruire la scena, di lavorare con gli attori, di portare avanti le revisioni di sceneggiatura con Veronesi non è minimamente cambiato. È sempre lo stesso. Ha avuto delle differenze legate all’impianto tecnico e alla trama, certo. Però l’approccio è quello che mi piace, quello che dà e fa squadra, che mette al primo posto il gruppo di compagni di lavoro; in alcuni casi, addirittura, di famiglia – e nel mio settore, lo so, questo è un concetto abusatissimo.

In questo caso, però, è piuttosto azzeccato.

Indubbiamente c’è qualcosa di estremamente vicino a quest’idea di unione e condivisione. Tutti erano desiderosi di far parte di Comandante. Sono stati generosi. Vedere gli attori trasformarsi in un vero equipaggio, con Pierfrancesco che li guidava, è stato stupendo.

Non ci sono stati momenti difficili?

È stato difficile quando vedevo che gli attori soffrivano più di me, che stare in questo enorme manufatto di 73 metri, in mezzo al mare, diventava una sfida. Quando succedeva, mi caricavo la macchina in spalla, indossavo abiti impermeabili e andavo tra di loro, in mezzo alle onde. A volte, è di questo che c’è bisogno. Di carnalità.

Faccio un passo indietro e torno al ruolo dei corpi. Secondo lei, oggi, si evita di mostrarli?

Non direi. La storia del nostro cinema è una storia che passa molto attraverso il corpo. C’è un fantasma, sì. E c’è costantemente il rischio di confondere il rispetto del corpo con la censura del corpo. È un concetto che è molto pericoloso, se si insinua nelle menti di chi mette in scena le storie. Io esploro il corpo con enorme curiosità, con il desiderio di contemplarne il mistero. Non amo particolarmente le scene di sesso, perché le scene di sesso mi sembrano momenti risolutivi, finali, di queste esplorazioni. E rischiano di sgretolare la sensualità e l’erotismo. Le scene di corpo non sono solo scene di sesso. L’amicizia e il racconto dell’amicizia passano attraverso il corpo; la violenza passa attraverso il corpo. Il racconto della solidarietà, del soccorso, passa attraverso il corpo. Se teniamo alta la sensualità, non c’è quasi bisogno del sesso. Questo non vuol dire che io demonizzi le scene di sesso; ne ho girate anche io. Ma non sono l’aspetto più eclatante, per me, del corpo.

E qual è, invece, l’aspetto più eclatante?

Quando ho adattato La vita bugiarda degli adulti, mi ha fatto molto piacere ricevere una lettera di Elena Ferrante, in cui mi ringraziava per come avevo messo in scena il corpo femminile. E mi ha fatto piacere perché è stato riconosciuto il mio desiderio di esplorazione. Eccolo, l’aspetto più eclatante. Nell’esplorazione, non ci può essere censura perché c’è rispetto. E il rispetto è il primo passo, per me, per la libertà degli esseri umani. Ed è quello a cui tendo alla fine: la liberazione stessa del corpo.

Citava La vita bugiarda degli adulti. Anche in questo caso ha collaborato con uno scrittore come Sandro Veronesi. Che tipo di relazione ha con la pagina scritta? È una guida, una bibbia da rispettare, o è importante trovare un momento per improvvisare?

È difficile fare un discorso generale, perché non c’è un’unica regola. Dipende, ovviamente, dalla singola situazione.

Proviamoci.

La letteratura che genera cinema è così varia proprio nelle sue caratteristiche più profonde. Ogni pagina richiede un approccio particolare, specifico. De Filippo me ne ha richiesto uno; Elena Ferrante un altro. Una cosa, però, è certa: è la pagina che contiene dentro di sé tutte le indicazioni necessarie. Alla fine, si eclissa. Come si eclissa la sceneggiatura. Come diceva Pasolini, è un oggetto che è destinato a eclissarsi per diventare altro. Il primo nemico della bellezza, per me, è l’improvvisazione. E bellezza, preciso, in questo caso va intesa come virtuosismo temporaneo di un esercizio tecnico. Se ci sono grande preparazione e grande rispetto per il testo, il testo diventa un paradigma. E quel paradigma dà vita a nuove battute che possono nascere, quasi spontaneamente, durante il lavoro sul set. Ed è quello a cui mira il set: avere un momento fulminante non previsto. Ma per permettere a questo momento fulminante di essere sublime è necessario studiare e prepararsi.

Ha lavorato sia con nuovi talenti, come la bravissima Giordana Marengo ne La vita bugiarda degli adulti, sia con attori navigati come Pierfrancesco Favino. Ora le chiedo: che cos’è il talento?

Il talento è la capacità di raggiungere una sintesi ordinata degli stimoli e delle sensazioni più disordinate che sperimentiamo durante la nostra esistenza. È una capacità che può durare un unico secondo oppure un’intera carriera. E dipende direttamente dal lavoro di supporto che si fa per sostenerla. Lo dico perché la storia del nostro cinema è costellata di fuochi fatui che nel loro momento di splendore sono stati luminosissimi. Nulla può togliere qualcosa al valore di quella luce, anche se ha brillato per poco. Gli artisti che hanno avuto una carriera più solida hanno coltivato il loro talento.

E come si coltiva il talento?

Con lo studio, come le dicevo, e con l’impegno e un lavoro continuo. Si coltiva svegliandosi presto la mattina. Questa è una cosa che mi ha insegnato Umberto Contarello quando frequentavo ancora i corsi al Centro sperimentale. Mi disse: non importa quanto tardi fai la sera, anzi forse è importante pure fare tardi la sera; ma indubbiamente è ancora più importante svegliarsi la mattina presto, darsi una disciplina, mettersi davanti alla pagina bianca e scrivere. E questo è un insegnamento fondamentale.

È più facile dirigere un attore o un’attrice alla sua prima esperienza o un veterano del set?

Anche in questo non è possibile stilare una classifica. L’attore è un essere umano. Puoi incontrarlo in un momento in cui è in uno stato di grazia. O in un momento in cui è più stanco e meno ispirato. Non possiamo far dipendere l’esito del lavoro da queste condizioni estemporanee. Una parte molto divertente del mio mestiere, e arricchente dal punto di vista umano, è il dover utilizzare dei registri linguistici e relazionali totalmente diversi a seconda della persona che si ha davanti.

Per quale motivo?

Perché ognuno di noi ha i suoi codici e il suo carattere. E questo può succedere anche nella stessa scena, anche quando si lavora con due gemelle. Non c’è una regola unica. Tutto cambia. Le persone, certo, e i loro pensieri e i loro stati d’animo. Il mio lavoro è un lavoro fatto di continua sintonizzazione. Stai lì, con la manopola emozionale tra le mani, pronto a regolarla per armonizzarti con l’essere umano che hai di fronte. Non c’è tecnica che vale più dell’ascolto.

In un certo senso, ascoltandola, mi pare che anche il regista faccia un po’ l’attore.

Sono due cose diverse. L’attore si espone, è più spericolato e senza vergogna, dà tutto quello che ha; non mette in scena solo il corpo, ma pure quello che conserva dentro di sé, nel profondo. Si spinge in prima linea e rischia. Un regista non si può dissociare dagli attori, perché se si dissocia dagli attori si dissocia dal film.

In un nuovo progetto, diceva prima, c’è sempre qualcosa di quello che si è fatto precedentemente. Che cosa c’è di Comandante nel suo prossimo film?

Ho deciso di prendermi una pausa per lo studio. Negli ultimi tre anni sono stato molto sul set, sono stato felice di sperimentare linguaggi diversi; adesso è il momento in cui il pensiero deve riprendersi il suo spazio.

Quindi non si smette mai di studiare.

Io no. (ride, ndr) Ma perché mi piace. Più vai in profondità rispetto a una questione, più trovi dei tesori. Se non studi, se ti accontenti di quello che sai, rischi di dimenticare tutto. L’approfondimento del sapere è una delle grandi gioie dell’esistenza.

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