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Opinioni

Tutto quello che non torna nel decreto Caivano, tra logica emergenziale e norme incostituzionali

Tanto la conferenza stampa del Consiglio dei ministri, con le parole di Giorgia Meloni, quanto i contenuti del nuovo provvedimento del governo dimostrano come la repressione rappresenti l’unico orizzonte politico per un esecutivo che fonda la sua azione sull’emergenza mediatica.
A cura di Roberta Covelli
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Dopo la visita istituzionale al Parco Verde di Caivano, il governo ha approvato un altro decreto legge per il "contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile". I diversi ministri, e la presidente, hanno presentato le varie misure contenute nel provvedimento. Al di là dei proclami, come già in passato, anche questo intervento mostra un volto repressivo, di propaganda e di sostanza, che già emerge dalle parole di Giorgia Meloni in conferenza stampa, ma che si ritrova anche nelle modifiche normative approvate. È il caso allora di analizzare prima il discorso della presidente e poi gli elementi più problematici del decreto in questione.

Bonificarne uno per bonificarli tutti

La presidente arriva una ventina di minuti dopo l’inizio della presentazione. Quando tocca a lei si scusa per il ritardo, e perché forse ripeterà quel che è stato già detto. L’esordio è nel segno dell’ormai classica narrazione eroica: il governo avrebbe potuto non mettere la faccia su temi difficili, ma ha deciso di farlo comunque. Mette le mani avanti di fronte al possibile fallimento, spostando l’attenzione dal fallimento che implicitamente già si ammette: le venti assunzioni nelle scuole di Caivano vantate dal ministro Valditara o i quindici vigili che potranno essere reclutati con procedure semplificate sono una soluzione emergenziale a un problema che esisteva già prima dello stupro perpetrato ai danni di due bambine al Parco Verde. Il ministro dell’Istruzione e del Merito ha pensato solo dopo quella notizia che a Caivano potrebbe servire lo stanziamento di un po’ di fondi (comunque fino all’anno scolastico 2024/2025)?

A poco vale la considerazione che Giorgia Meloni fosse all’opposizione fino all’anno scorso, e che in un anno sia impossibile risolvere questioni complesse. È vero, certo. Ma non si può trascurare la presenza di Piantedosi da più di un decennio al Viminale, la partecipazione di due forze politiche, Forza Italia e Lega, alla compagine del precedente esecutivo, la scelta emergenziale già operata dalla destra berlusconiana (di cui facevano parte anche gli attuali governanti) quindici anni fa, in Campania, o la carica di ministra della gioventù di Giorgia Meloni, che si sarebbe dovuta occupare già al tempo di devianze e politiche giovanili.

Oggi, la soluzione del governo a un problema sociale radicato, al netto delle misure penali che vedremo, è la nomina di un commissario straordinario: si sceglie ancora una volta una gestione emergenziale, calata dall’alto, per questioni profonde che andrebbero affrontate con una crescita dal basso. Si è insomma deciso che il Parco Verde debba diventare un simbolo. "Ce ne sono diversi di territori che versano nelle stesse condizioni" spiega Giorgia Meloni, "abbiamo deciso di prenderne uno", come modello: uno per tutti, Caivano come esempio di bonifica (una scelta terminologica ardita, sia per i richiami storici, sia per il significato).

Per gli altri territori ci sono gli sgomberi, richiesti ai prefetti dal ministro Piantedosi, e le "operazioni ad alto impatto", a cui la stessa presidente accenna, che, oltre a Caivano, hanno interessato ieri Tor Bella Monaca a Roma e i Quartieri Spagnoli a Napoli.

Il discorso di Meloni tra falsità e fallacie

Ma è nell’illustrare le misure contenute nel decreto appena approvato che Meloni si esibisce in stratagemmi retorici e informazioni errate, dimostrando una certa confusione, involontaria o studiata. Inizia con un argomento fantoccio, citando un’ipotetica critica estremizzata, secondo cui ci sarebbe chi sta accusando il governo di voler "sbattere in galera i bambini di dodici anni". Ingigantita la critica, ecco arrivare la confusione: secondo la presidente, l’ammonimento sarebbe per "reati gravi", con il monito al minore e la convocazione dei genitori in questura. Questa spiegazione è, banalmente, falsa. L’ammonimento può avvenire per gli adulti, e per i minorenni, solo fin quando non c’è una querela: è una misura di prevenzione, che si applica proprio quando il procedimento penale non può partire, ma il questore ritiene comunque di dover comunicare formalmente alla persona con pericolosità sociale di comportarsi meglio. È bizzarro che Giorgia Meloni non conosca, o si confonda, su una delle misure centrali del decreto Caivano.

Ma non è solo la presidente a veicolare informazioni sbagliate, anche se enfatizza quelle altrui: la ministra Roccella, ad esempio, continua a ribadire il dato secondo cui i giovanissimi accederebbero per la prima volta ai contenuti pornografici a sette anni, nonostante da più di una settimana sia stata smentita da Pagella Politica, che ha ricostruito le pubblicazioni scientifiche in materia (autorevoli studi internazionali, riferiti anche all’Italia, indicano 12 anni come la prima età di accesso).

Il dato falso di Roccella, non nuova a distorsioni simili, è utile comunque a Meloni per rintuzzare la narrazione sulla figura materna, mostrando preoccupazione e coinvolgendo le "mamme" (giornaliste) in platea: come già segnalato, infatti, la leader di Fratelli d’Italia sta basando la sua retorica degli ultimi anni sull’identità nella Grande Madre, un archetipo psicologico e narrativo che ribadisce ogni volta che richiama il suo ruolo di madre (italiana, cristiana, eccetera). Non solo: un dato abnorme come l’immagine di bimbetti di sette anni alle prese col porno aumenta l’allarme sociale, legittimando gli interventi emergenziali.

La notizia come guida politica, la repressione come unico orizzonte

Prima di affrontare i problemi di sostanza del decreto, due ultimi profili del discorso di Giorgia Meloni meritano di essere citati, perché rivelatori della sua linea di propaganda oltre che di governo.

Primo. Sulla criminalità minorile la presidente non cita dati, statistiche, informazioni ufficiali. Spiega il problema ripetendo per due volte di seguito la stessa frase: "Tutti i fatti dei quali noi stiamo parlando vedono come protagonisti dei giovanissimi".

Ma l’azione politica di un governo non può essere una reazione alla cronaca: da esponenti politici che in campagna elettorale assicuravano di essere "pronti" ci si aspetterebbe una progettualità, non l’improvvisazione di misure sull’onda delle notizie. Certo, l’interpretazione alternativa sarebbe quella secondo cui i provvedimenti repressivi sono già tra i progetti del governo, e l’eco mediatica di alcuni avvenimenti sia semplicemente sfruttata strategicamente per la loro approvazione con critiche ridotte.

Secondo. Giorgia Meloni si stupisce che, fino a ieri, la pena per l’inosservanza dell’obbligo d’istruzione fosse solo una multa da 30 euro, dimostrando con questo stupore di ignorare che esistono sistemi sanzionatori alternativi a quello penale, non per forza meno efficaci (anzi). La repressione penale non può essere l'unico orizzonte politico. Di fronte a un bambino che non riceve un’istruzione, finora la priorità non è stata quella di punire chi non lo manda a scuola, ma casomai di innescare il monitoraggio del contesto familiare, attraverso l’assistenza sociale, per la tutela complessiva del minore. Certo si tratta di misure più complesse da spiegare del tintinnio di manette che è possibile vantare quando si introduce l’ennesimo nuovo reato.

Il governo reintroduce una norma già dichiarata incostituzionale

Entrando nel merito del decreto appena approvato, è possibile notare diverse norme sul piano penale e procedurale (promulgate con decreto, con tutti i problemi che questa scelta normativa comporta). Il testo è un minuzioso collage di modifiche ad altre leggi: tra queste figura anche il D.P.R. 448/1988, cioè il codice del processo penale minorile, a dimostrazione che le norme per la repressione dei reati commessi dai più giovani già esistevano prima della lotta alle baby gang del governo Meloni. Erano già previste e applicate, anche per i minori, misure come l’arresto in flagranza, il fermo e la custodia cautelare: il codice del processo penale minorile ricalca infatti in gran parte il sistema previsto per gli adulti, con alcuni criteri guida per evitare la stigmatizzazione e favorire il reinserimento sociale. In particolare, è vietata la diffusione mediatica di informazioni sull’identità dei minori coinvolti ed è prevista l’attivazione di servizi di assistenza minorile, oltre al coinvolgimento di chi esercita la potestà genitoriale.

Tra le varie modifiche del decreto Caivano al codice, ce n’è però una particolarmente grave, perché, oltre a calpestare i princìpi del diritto penale minorile, reintroduce una norma dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale. Il governo prevede infatti la custodia cautelare in carcere in caso di pericolo di fuga del minore, ossia la stessa identica norma che la Consulta dichiarò incostituzionale con la sentenza 359 del 2000. La custodia in carcere, da evitare secondo i princìpi anche internazionali di diritto penale minorile per ridurre il rischio che il giovane entri in contatto con un ambiente criminogeno ancor prima di un'eventuale condanna, andrebbe disposta solo quando "sussistano gravi e inderogabili esigenze istruttorie ovvero sussistano gravi esigenze di tutela della collettività", tra cui non rientra il pericolo di fuga.

Tra Daspo, flagranza e ammonimenti tra prevenzione e discrezionalità

Oltre alla norma incostituzionale, quel che fa il decreto Caivano sul piano penale è inasprire le sanzioni e abbassare i limiti entro cui è possibile ricorrere, anche per i minorenni, a misure di prevenzione come il Daspo urbano, il divieto di accesso a locali pubblici, l’ammonimento del questore. È una strategia già incontrata nel decreto Minniti, che ha introdotto o sviluppato queste misure, poi nei decreti Salvini e, più di recente, nei tentativi di criminalizzazione degli ecoattivisti: si anticipa la repressione, in ottica di prevenzione dei reati, valutata da autorità dipendenti dall’esecutivo sulla base di indizi di pericolosità sociale. Come già denunciato, questo allargamento delle misure simil-penali per la tutela del decoro, con l’anticipazione della repressione, aumenta i rischi di discrezionalità nell’applicazione di provvedimenti che comunque limitano la libertà delle persone. Si tratta di minacce che non vanno valutate pensando al giovanissimo criminale che spaccia per conto di un clan o che stupra due giovanissime minorenni, che già sarebbe sottoposto al processo penale minorile con le misure vigenti, ma anche allo studente che, in manifestazione, commetta il reato di resistenza a pubblico ufficiale, annoverato nel decreto tra i delitti che legittimano il ricorso a queste misure.

Il pregio del decreto Caivano

Se il decreto Caivano ha almeno un pregio è quello di rivelare plasticamente l’idea di società del governo Meloni. I finanziamenti alle scuole sono tardivi, ridotti, previsti per i prossimi due anni scolastici, tamponando situazioni di vulnerabilità già emerse da indagini precedenti. L’argine all’elusione scolastica, al di là delle parole di Giorgia Meloni sugli istituti aperti al pomeriggio e l’alternativa al "niente", si limita all’approccio repressivo nei confronti dei genitori, che rischiano fino a due anni di reclusione e perdono l’assegno di inclusione (sempre che ne abbiano diritto, dopo la riforma), venendo ricacciati nella povertà economica e culturale. Si continuano ad allargare le misure di prevenzione nelle mani di autorità dipendenti dall’esecutivo (con effetti pratici discutibili, visto che è lecito dubitare che la comunicazione formale di un questore abbia un qualche valore pedagogico nei confronti di un minore probabilmente privo di modelli virtuosi).

Il rispetto della legge è un tema complesso, che andrebbe affrontato con profondità d’analisi e creatività di soluzioni. Replicare il sistema di minaccia e repressione, uguale da secoli, è utile più alla gestione del potere che alla costruzione di una comunità, perché spinge le persone a rispettare le regole per timore della punizione, più che per adesione a un sistema di valori. Il risultato è, al più, una patina di decoro, basata sulla violenza e sulla paura: finché la soluzione è emergenziale o repressiva, e comunque calata dall’alto, il comportamento sarà, più che da cittadini, da sudditi, che rispettano le regole perché impauriti o che le violano perché la paura non è abbastanza contro la malvagità o il bisogno.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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