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La sentenza sulla molestia di 10 secondi è lo specchio di un Paese che non sa affrontare la violenza di genere

Un collaboratore scolastico a Roma è stato assolto dall’accusa di violenza sessuale per aver infilato le mani nelle mutande di una studentessa minorenne, perché la molestia è durata “solo una manciata di secondi”. Un nuovo caso in cui, stabilendo una sorta di durata minima per riconoscerla come tale, la violenza sessuale viene sminuita.
A cura di Jennifer Guerra
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Un palpeggiamento, se dura pochi secondi, non costituisce reato. È quanto ha stabilito il tribunale di Roma assolvendo un collaboratore scolastico dall’accusa di violenza sessuale per aver infilato le mani nelle mutande di una studentessa minorenne, per il quale il pm aveva chiesto una condanna a 3 anni e sei mesi. I giudici hanno riconosciuto che il fatto è avvenuto, ma poiché la molestia è durata “una manciata di secondi, senza alcun indugio di toccamento” si è trattato di “una manovra maldestra ma priva di concupiscenza”. Uno scherzo, insomma, un’interazione innocente fra un uomo ultrasessantenne e una ragazza nemmeno maggiorenne.

La sentenza arriva a pochi giorni dalla notizia della denuncia di stupro nei confronti di Leonardo Apache La Russa e dalle dichiarazioni del padre, il presidente del Senato Ignazio La Russa, che non solo ha “assolto” preventivamente il figlio assicurandone l’innocenza, ma che ha anche messo in dubbio la credibilità della donna che l’ha denunciato, sottolineando il suo consumo di cocaina.

Queste due notizie hanno in comune la stessa tendenza a sminuire la violenza sessuale, nel primo caso stabilendo una sorta di durata minima per riconoscerla come tale, nel secondo caso innescando ancora prima che inizi il processo vero e proprio la consuetudine della vittimizzazione secondaria. La vittimizzazione secondaria, spiega il Consiglio d’Europa, “non si verifica come diretta conseguenza dell’atto criminale, ma attraverso la risposta di istituzioni e individui alla vittima”, ad esempio colpevolizzandola della violenza subita o obbligandola a incontri reiterati col suo aggressore (come avviene in molti casi di maltrattamenti in famiglia, a volte con esiti fatali). L’Italia ha un grosso problema con la vittimizzazione secondaria, riconosciuto anche dalla commissione di esperte del Consiglio d’Europa sull’applicazione della Convenzione di Istanbul e dalla commissione d’inchiesta parlamentare sui femminicidi. In molti casi, sono proprio le sentenze di tribunale a farsi promotrici di questo atteggiamento, motivo per cui l’Italia è stata anche condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2021 per le “affermazioni colpevolizzanti, moralizzatrici e veicolanti di stereotipi sessisti” in una sentenza di assoluzione di una violenza sessuale di gruppo risalente a 6 anni prima.

L’impressione è che però ogni volta si debba ricominciare da zero e che per ogni sentenza che riconosce la specificità della violenza sessuale ne seguirà un’altra che la negherà o la ridurrà a un semplice fraintendimento. Così come dopo ogni stupro ripartirà la giostra della colpevolizzazione mezzo stampa, degli articoli allusivi a imprese sessuali mirabolanti, degli appelli al garantismo che sfociano in una sentenza già scritta per la vittima, di consigli su come si deve o non deve comportare, quando, come e se denunciare.

Nonostante il nostro Paese abbondi di norme, raccomandazioni ed esperti che si prodigano a spiegare alle donne come evitare di essere stuprate o ammazzate (anche se sarebbe più utile se questi inviti arrivassero dai centri antiviolenza, che ne fornirebbero di più sensati), la violenza si ripete sempre uguale a se stessa. Non solo nelle modalità – che sembrano tutte scritte dallo stesso crudele sceneggiatore – ma anche in tutto il portato culturale e sociale che trascina con sé. Quando si dice che la violenza è sistemica, si intende proprio questo: una violenza che si fa sistema e che strattona le donne e tutti i soggetti marginalizzati da ogni parte, riempiendole di responsabilità, caricando le loro storie di indignazione estemporanea e fine se stessa, trasformandole in sante vergini e martiri solo se rispondono ai criteri necessari per diventare le vittime perfette, costringendole a provare, da querelanti, la loro innocenza, che deve possibilmente estendersi a ogni ambito della vita. E ora anche stabilendo entro quanti secondi lo scherzo del bidello ha dignità di far innescare questo circo degli orrori, a cui partecipano volentieri tutti: tribunali, giornali, televisioni, chiacchieratori da bar, commentatori dei social, seconde cariche dello Stato.

E come ogni volta, quando si ha la percezione che la soglia è stata superata, si individua il cattivo di turno: quel particolare giudice che ha emesso la sentenza, quel particolare giornalista che ha scritto l’articolo offensivo. Senza rendersi conto che quel giudice e quel giornalista sono il prodotto di una società che non ha ancora accettato il principio di una legge che ha adottato ormai più di dieci anni fa, ovvero che “la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione”.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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