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Perché l’aborto non un è delitto, come dice la vicedirettrice del TG1: è un diritto di tutte le donne

Sull’aborto e sull’inizio della vita le persone sono libere di avere le proprie convinzioni morali personali, ma mettere sullo stesso piano diritto e delitto è semplicemente disonesto, perché nessun diritto corrisponde a un obbligo.
A cura di Jennifer Guerra
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“Stiamo scambiando un delitto per un diritto”, ha detto la vicedirettrice del Tg1 Incoronata Boccia, ospite del programma di Rai 3 Che Sarà di Serena Bortone, già coinvolto nelle polemiche sulla censura del monologo sull’antifascismo dello scrittore Antonio Scurati. Dopo il dibattito andato in onda qualche giorno fa a Porta a Porta dove a discutere di aborto erano sette uomini, ancora una volta la Rai si fa salotto di un discorso sull’interruzione di gravidanza inadeguato, impreparato e offensivo per tutte le donne che hanno compiuto questa scelta.

È assurdo che 46 anni dopo la legge 194, che depenalizzò l’aborto nel 1978, il servizio pubblico si faccia nuovamente megafono di chi mette in dubbio che le donne abbiano diritto di decidere sul proprio corpo. Diritto che è stato tra l’altro ulteriormente confermato dal fallimento del referendum abrogativo del 1981, che voleva cancellare la legge appena introdotta. Dovrebbe quindi essere scontato che una persona intenzionata a interrompere una gravidanza si senta in diritto di farlo liberamente e in sicurezza, avendo alle sue spalle una legge che glielo permette. Invece ancora oggi chi abortisce è trattata come una criminale, e oltre al giudizio del personale medico, deve anche scontare quello della società intera.

L’aborto è una pratica che ha sempre accompagnato l’umanità e che, contrariamente a ciò che crediamo oggi, solo raramente è stata oggetto di divieti e condanne morali. Fino alla metà dell’Ottocento si sapeva molto poco del funzionamento della riproduzione umana e persino la Chiesa non aveva una chiara posizione contro l’aborto. L’idea che la vita cominci dal concepimento, il caposaldo dell’antiabortismo “moderno”, è stata ufficializzata solo nel 1974, con la dichiarazione sull’aborto procurato della Congregazione della dottrina della fede. Più in generale, la condanna morale dell’aborto sin dall’inizio della gestazione è un tema molto recente, che ha raccolto un ampio consenso politico solo nella seconda metà del Novecento, dopo che molti Paesi occidentali decisero di depenalizzarlo. Si passò allora dalla proibizione dell’aborto come crimine “contro l’integrità e la sanità della stirpe” (come in Italia) alla condanna morale dell’aborto come una forma di omicidio.

In Italia, così come in Francia e negli Stati Uniti, le leggi sull’aborto furono approvate proprio perché si sapeva che milioni di donne abortivano clandestinamente, in condizioni igieniche e sanitarie molto gravi, mettendo a rischio anche la loro vita. Si stabilì quindi che le donne avevano diritto a compiere questa procedura in maniera sicura e controllata, principio che ancora oggi viene seguito in tutti i luoghi del mondo dove l’aborto è legale. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, il mancato accesso a cure abortive “sicure, tempestive, accessibili e rispettose” è un “problema critico di salute pubblica e di diritti umani”, che mette a rischio il “diritto alla vita, il diritto al più alto livello possibile di salute fisica e mentale, il diritto a beneficiare del progresso scientifico, il diritto di decidere liberamente e responsabilmente sul numero, la distanza e i tempi dei figli; e il diritto a essere libere dalla tortura, da trattamenti e punizioni crudeli, inumani e degradanti” delle donne.

Ciò non riguarda il diritto alla vita, se non quella di chi abortisce. Il criterio che la scienza ha adottato per stabilire quando inizia la vita è la viabilità, ovvero la possibilità che il feto possa sopravvivere autonomamente fuori dall’utero, intorno alle 23-24 settimane di gestazione. Politici e associazioni antiabortiste, sventolando studi datati se non addirittura ritirati, cercando di continuo di mettere in discussione questo termine, ad esempio ritenendo il battito fetale (percepibile già dalla sesta settimana) una prova di vita.

Sull’aborto e sull’inizio della vita le persone sono libere di avere le proprie convinzioni morali personali, ma mettere sullo stesso piano diritto e delitto è semplicemente disonesto, perché nessun diritto corrisponde a un obbligo. Chi è contrario all’aborto, non è tenuto ad abortire, mentre chi ha il desiderio o la necessità di abortire ha diritto a farlo senza sentirsi dare dell’assassina in diretta tv. Sono continui i tentativi di legittimare questa retorica: nel primo giorno di legislatura, il centrodestra ha presentato tre disegni di legge contro l’aborto, uno dei quali punta al riconoscimento giuridico del feto, presentato dal capogruppo al Senato di Forza Italia Maurizio Gasparri. Stabilendo l’equivalenza tra feto e persona, si equivale anche l’aborto all’omicidio. Qualche mese fa, in seguito al femminicidio di Vanessa Ballan, uccisa mentre era incinta, la vicepresidente del senato Licia Ronzulli, anche lei di Forza Italia, ha proposto di considerare duplice omicidio l’uccisione di donne in stato di gravidanza, sottintendendo che anche un feto di poche settimane sia una persona formata e portatrice di diritti.

Il problema è che questa retorica è talmente pervasiva che anche chi è chiamato a difendere l’aborto, nel caso di Porta a Porta il deputato del Pd Alessandro Zan e nel caso di Che sarà la scrittrice Dacia Maraini, non riesce a esimersi dal parlarne solo in termini negativi, descrivendolo come una scelta sempre dolorosa e sofferta. Anche queste parole alimentano l’idea che l’Ivg sia moralmente sbagliata, e sempre e comunque qualcosa di cui ci deve vergognare.

Finché continueremo a diffondere l’idea che l’aborto è sempre sbagliato, sempre difficile, che è un delitto o che “purtroppo è un diritto”, come disse lo scorso anno la ministra della natalità Eugenia Roccella, nessuna persona riuscirà a interrompere una gravidanza liberamente e senza intoppi. Ed è inutile pensare che il problema siano solo gli obiettori di coscienza negli ospedali e gli antiabortisti nei consultori, quando questa vischiosa retorica colpevolizzante resta il primo ostacolo fra una donna e la sua libertà di scelta.

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Jennifer Guerra è nata nel 1995 in provincia di Brescia e oggi vive in provincia di Treviso. Giornalista professionista, i suoi scritti sono apparsi su L’Espresso, Sette, La Stampa e The Vision, dove ha lavorato come redattrice. Per questa testata ha curato anche il podcast a tema femminista AntiCorpi. Si interessa di tematiche di genere, femminismi e diritti LGBTQ+. Per Edizioni Tlon ha scritto Il corpo elettrico. Il desiderio nel femminismo che verrà (2020) e per Bompiani Il capitale amoroso. Manifesto per un Eros politico e rivoluzionario (2021). È una grande appassionata di Ernest Hemingway.
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