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La Resistenza e il 25 aprile secondo Giulio Giordano, partigiano: “I fascisti erano dei cretini”

“Avevamo capito che non ci bastava fare ‘pum! pum!’ e cacciare i tedeschi, noi volevamo un’Italia nuova, democratica, ma non era questo il Paese che sognavamo”.
A cura di Saverio Tommasi
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Giulio Giordano, partigiano piemontese, classe 1925
Giulio Giordano, partigiano piemontese, classe 1925

Giulio Giordano oggi è vivo, sta bene e quando aveva vent'anni è stato uno dei più importanti partigiani della zona di Torre Pellice, in Piemonte, ma lui non vuole sentirselo dire: "Ero uno dei tanti, non ho fatto niente di particolare, ci siamo tutti ribellati alla dittatura fascista per costruire una democrazia che noi, che allora eravamo soltanto dei ragazzi, non avevamo neanche mai visto".
Giulio Giordano ha 97 anni, e l'ho incontrato a casa sua.

Mi dice un ricordo della scuola fascista?

All'ora di francese salta fuori la parola "Grève", che vuol dire "sciopero". E succede che l'insegnante fa tutto un discorso per spiegarci che quella parola non avremmo mai dovuto pronunciarla. Questo lo ricordo bene.

Le viene in mente anche un altro ricordo?

Mi ricordo l'esame, mi chiesero: "La canna del moschetto com'è?" La risposta sarebbe stata "elicoidale", invece io guardai la commissione e dissi: "Vuota!" Però poi mi promossero lo stesso.

C'era il sabato fascista?

Certo.

E in cosa consisteva?

Avanti e indietro, riposo, attenti, pied-arm, sott-arm e altre baracconate così.

Mi racconta la sua famiglia di origine?

Mio padre faceva l'orologiaio, mia madre l'operaia alla Pralafera.

Come si può definire politicamente la sua famiglia?

Mio padre era uno dei sette o dieci di tutta Torre Pellice a non essersi iscritti al partito fascista, la storia parte tutta da lì. In casa mi facevano sempre questa raccomandazione: "Non devi mai raccontare fuori quello che diciamo in casa".

Quale sarebbe stato il rischio?

Tribunale speciale difesa dello Stato. Partiva con una denuncia, se poi i carabinieri la caricavano un po' finivi al confino, era un provvedimento amministrativo, per il condannato non c'era neanche un processo, ti prendevano e ti spedivano via.

Qual è stato il suo percorso di resistenza?

All'inizio facevo da collegamento con chi voleva entrare in formazione partigiana, poi ho lavorato in una tipografia clandestina, stampavamo di notte un giornale con le notizie di Radio Londra e raccontando anche quello che accadeva in banda.

Dove dormivate?

In una caserma abbandonata.

Avevate i letti?

Avevamo la paglia.

I cuscini?

Altra paglia.

Mi racconta il periodo in cui faceva da collegamento con i nuovi?

Per esempio andavo alla stazione a vedere se arrivava qualcheduno che voleva presentarsi. Poi c'era un segnale: chi arrivava da Torino o da fuori andava al Caffè d'Italia. Al Caffè d'Italia c'era un dehor, fuori, con delle piante. Strappava una foglietta, andava al bancone, ordinava un bicchiere di vino e mollava la foglietta. La famiglia Rostan, che era la proprietaria, allora lo metteva in contatto con qualcuno di fidato, ad esempio con me.

Poi è arrivata l'esperienza della tipografia

E' stato Riccardo Malan un giorno a dirmi: "Tu devi andare in tipografia, dobbiamo stampare". Per noi la cosa principale era – quando avevamo finito di stampare – fondere subito il piombo, dove erano scritte le parole. Se i fascisti avessero trovato quelle specie di matrici saremmo stati spacciati. E pensare che hanno perquisito la tipografia almeno dieci o undici volte, senza mai trovare niente. Secondo me erano dei cretini.

Se erano fascisti erano per forza anche cretini, non crede?

Eh sì, proprio dei cretini.

Cambio argomento: lei ha mai avuto paura?

Sì. E se c'è qualcheduno che dice che non ha mai avuto paura, è un coglione e un bugiardo. E' normale avere paura. Qualcuno c'è che dice "io non ho mai avuto paura", ma sono quelli che non hanno fatto niente, proprio un tubo di niente, per questo non hanno mai avuto paura.

Le faccio una domanda un po' provocatoria: se aveva paura, perché l'ha fatto?

Perché ero antifascista, volevo ritornare a uno Stato democratico, volevamo che i sindaci fossero davvero sindaci e non podestà, per esempio. Volevamo dire quello che pensavamo, volevamo essere liberi.
Rifletta su questo: la maggioranza dei partigiani aveva 20 anni, cioè eravamo tutti nati sotto il fascio, eravamo tutti andati a scuola sotto il fascio, eravamo tutti stati imbevuti di fascismo. E allora perché l'8 settembre non siamo andati con i fascisti ma siamo andati in montagna? Perché c'è stata in noi giovani come una rivolta interna, un sentimento profondo. Alla cartolina del precetto delle classi '22, '23, '24, '25, si presentarono meno del dieci per cento dei ragazzi, gli altri salirono tutti in montagna o si dettero alla clandestinità in città.
Noi ragazzi, poi, avevamo capito che non ci bastava fare "pum! pum!" e mandare via i tedeschi, noi volevamo fare un Paese nuovo, anche se poi non ce l'abbiamo fatta, non è questo il Paese che sognavamo e per il quale abbiamo lottato.
Siamo stati degli ingenui, eravamo convinti che non ci sarebbero state più guerre, invece oggi continuano, anche in Europa.

Di che cosa è orgoglioso?

Di aver fatto il partigiano, ma non lo auguro a nessuno. A noi i fascisti ci hanno rovinato la giovinezza, ce l'hanno portata via, noi non siamo mai stati giovani. E quando siamo tornati a casa non eravamo più gli stessi.

La ringrazio.

Si figuri, il Padreterno non mi ha ancora voluto con sé, perciò devo chiacchierare con qualcuno.

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Sono giornalista e video reporter. Realizzo reportage e documentari in forma breve, in Italia e all'estero. Scrivo libri, quando capita. Il più recente è "Siate ribelli. Praticate gentilezza". Ho sposato Fanpage.it, ed è un matrimonio felice. Racconto storie di umanità varia, mi piace incrociare le fragilità umane, senza pietismo e ribaltando il tavolo degli stereotipi. Per farlo uso le parole e le immagini. Mi nutro di video e respiro. Tutti i miei video li trovate sul canale Youmedia personale.
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