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Opinioni
Elezione del Presidente della Repubblica 2022

Il Ddl Zan è la conferma: l’elezione del Presidente della Repubblica sarà la resa dei conti

La gestione del ddl Zan è la conferma definitiva: in Parlamento nessuno si fida più di nessuno e i leader di partito non sono in grado di controllare i propri eletti. Tra faide interne e diffidenze reciproche, l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica rischia di essere la resa dei conti di una classe politica al tramonto.
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E pensare che solo qualche mese fa ce l’avevano raccontata come una cosa semplice: via Conte, Draghi a Palazzo Chigi per gestire campagna vaccinale e Pnrr prima di essere trionfalmente eletto alla Presidenza della Repubblica come successore di Sergio Mattarella, l'Italia che esce dalla crisi grazie a una ritrovata coesione nazionale. Insomma, il paese si sarebbe ritrovato fuori dalla pandemia, con un serio piano di riforme e una sensibile ripresa dell’economia in atto, unanime nel mandare al Quirinale uno dei suoi uomini più autorevoli.

La realtà, però, non sempre corrisponde alle aspettative e la partita del Colle si è aperta in uno scenario piuttosto diverso, che non definiremmo esattamente di concordia nazionale. Il cammino del ddl Zan ha evidenziato non solo l’esistenza di profonde distanze fra le diverse anime della maggioranza che sostiene Draghi, ma anche di un bipolarismo “in potenza”, che potrebbe svilupparsi sul terreno dei diritti sociali, peraltro sempre più centrale nel dibattito pubblico. Se la pax draghiana sembra reggere senza scossoni in campo fiscale, economico e di gestione della pandemia (dove è evidente la marginalizzazione delle istanze leghiste), è sull'idea di società del futuro che andiamo incontro a una nuova polarizzazione, che può anche rappresentare occasione di mobilitazione per soggetti ai margini della discussione pubblica.

Le ripercussioni sugli assetti politici sono evidenti sin da ora. PD e M5s hanno un disperato bisogno di una ragione per stare insieme, la sola convenienza elettorale non basta: per questo i pontieri del patto Conte – Letta lavorano da mesi a una piattaforma politica fortemente caratterizzata a sinistra nel campo dei diritti sociali e civili. Un progetto antitetico a quello di Meloni e Salvini, che dal canto loro hanno necessità di definire una proposta di governo del Paese che sia efficace non solo alla prova delle urne, ma anche a quella dei mercati e delle istituzioni internazionali (e il senso del "campo largo" con Forza Italia e le altre formazioni centriste è tutto qui). In mezzo al guado Italia Viva e i tanti capitani senza soldati delle forze liberali, forse poco rilevanti nel Paese ma molto nei palazzi del potere. Ogni riposizionamento, però, genera frizioni e tensioni, anima le correnti interne ai partiti e determina inesorabilmente cambi di casacca e di assetto. Che alla lunga pesano eccome.

Il caos sul ddl Zan ha dimostrato che nessun leader controlla effettivamente i propri parlamentari, questione non di poco conto quando si tratta di voti segreti e trattative riservate, brodo di coltura per gli ormai mitologici franchi tiratori. Il filo rosso che lega gli eletti di tutti i partiti è il taglio dei parlamentari (ci sarà da sgomitare per farsi ricandidare), ma ogni formazione ha i propri casini interni. Per come stanno le cose, nessuno sembra potersi permettere di andare alla conta o forzare la mano, il risultato sarebbe solo quello di bruciare candidature e fare il gioco di nemici interni ed esterni. Serve, insomma, un nome "ampiamente condiviso" e non sarà affatto facile trovarlo. Il progetto di PD e Cinque Stelle, avallato anche dai partner europei e da ambienti del Quirinale, è noto da tempo: l’elezione al Quirinale di una figura di alto profilo istituzionale che possa fare da contrappeso alla prevedibile vittoria elettorale di una coalizione fortemente sbilanciata a destra. Operazione non semplice, perché, come detto, serve che il centrodestra dia una mano: difficile che Berlusconi, Salvini e Meloni accettino di essere messi sotto tutela da un nome ingombrante o con un passato sulle barricate.

Su Draghi, invece, andrebbe fatto un discorso a parte. Il profilo era e resta perfetto, inscalfibile alla prova del Parlamento in seduta comune. Il punto è che liberare Chigi adesso non è affatto cosa da poco, per una serie di ragioni che dipendono solo marginalmente dalla volontà dei leader politici italiani. Le incognite legate alla pandemia, la necessità di allungare la campagna vaccinale, lo slittamento dei tempi del Pnrr, ma anche le aspettative dei partner europei e la consapevolezza di dover gestire la ripartenza: tutti elementi che lasciano pensare a una prosecuzione dell'impegno di Draghi a Palazzo Chigi.

Già, ma poi? Il Presidente del Consiglio accetterebbe di restare un altro anno alla guida del governo, facilitare l'elezione di una personalità di garanzia (Gentiloni? Cartabia?), per poi restare a guardare cosa accade alle politiche del 2023? Improbabile, a parere di chi scrive. Non è un caso che da settimane sia in atto un vero pressing sull'attuale inquilino del Colle perché accetti una soluzione "alla Napolitano": un secondo mandato a tempo, che permetterebbe a Draghi di completare la legislatura, traghettare il Paese alle urne e poi rendersi "eleggibile" per il Quirinale. Un'ipotesi che Mattarella giudica una forzatura inopportuna, ma che potrebbe ritornare in auge nel caso di stallo prolungato nei giorni cruciali. La staffetta, però, potrebbe essere anche l'uovo di Colombo per Chigi: in questo scenario, Draghi salirebbe al Colle già nel 2022, lasciando il governo nelle mani di un uomo di garanzia, quotato in Europa e non inviso in Parlamento. E c'è già chi giura che a Chigi tornerà Gentiloni.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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