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Coronavirus, cosa è andato storto: cronaca di una vera emergenza che non abbiamo ancora capito

Come si è passati dall’essere il Paese con la “linea di misure cautelative più efficace in Europa e forse addirittura anche a livello internazionale” a quello più esposto al coronavirus e alle sue conseguenze? Il racconto di una lunga catena di errori e di omissioni, che parte da una generale sottovalutazione del rischio e dall’incapacità di vedere arrivare l’onda che rischia di travolgere non solo il nostro sistema sanitario.
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Aggiornamento ore 18:20 del 4 marzo: Il governo ha deciso di chiudere le scuole fino al 15 marzo, oltre che di varare una serie di misure più stringenti per il contenimento del contagio da coronavirus. Misure attese da tempo e più che mai necessarie, speriamo incisive, malgrado il ritardo.

“I virus non spariscono da soli”. Le parole di Walter Ricciardi, il superconsulente dell’OMS chiamato dal ministero della Salute a guidare la task force sull’emergenza coronavirus, chiariscono subito qual è l’oggetto di cui dovremmo discutere con la serietà che il momento richiede: cosa possiamo fare per arginare la diffusione del contagio, cosa stiamo invece facendo e cosa non abbiamo fatto o abbiamo fatto male. Qualcosa è andato storto nelle scorse settimane, il punto è capire se stiamo davvero invertendo la rotta e posto rimedio a errori e mancanze. O se ci stiamo allegramente avviando verso il baratro, fra Milano che non si ferma, Nardella che vuole addirittura le resse ai musei gratis e il Lazio che si sente sostanzialmente immune non si capisce bene in base a cosa. Per farlo, bisognerebbe cominciare a rispondere alla madre di tutte le domande: come è possibile che si sia passati in pochi giorni dall’essere il Paese più preparato al mondo contro il coronavirus a quello focolaio d’Europa, terzo/quarto per numero di casi.

La risposta più semplice è probabilmente la più corretta: non siamo mai stati il Paese con la “linea di misure cautelative più efficace in Europa e forse addirittura anche a livello internazionale”, come andavano ripetendo Conte e Speranza prima che il coronavirus travolgesse Codogno e la Lombardia. Una boutade comunicativa che ha fatto danni, perché ha contribuito ad allentare l’attenzione verso un pericolo di portata enorme, ma soprattutto una mistificazione della realtà. Il Global Health Security Index (che mappa una serie di “ambiti”, tra cui anche l’esposizione dei Paesi al rischio di una epidemia) fornisce alcune risposte chiare e rende l’idea delle tare e dei problemi che ha il “sistema Italia” nel suo complesso. Due in particolare sono gli aspetti in cui il nostro Paese risulta più carente (e vedremo il peso che hanno avuto in questa crisi): “Communications with healthcare workers during a public health emergency” e “Health capacity in clinics, hospitals and community care centres”. Il caso Codogno e i primi giorni dell’emergenza sono proprio la storia di una cattiva comunicazione fra i livelli della struttura sanitaria, di errori e lentezze burocratiche, di applicazione disomogenea di norme e protocolli e, in definitiva, del timore per la tenuta del sistema nel suo complesso, dopo anni di riduzione costante della capacità di intervento e di posti letto negli ospedali.

Sarebbe bastato leggere il rapporto GIMBE sulla sostenibilità del Servizio Sanitario Nazionale per avere un’idea dello stato attuale di ciò che ostinatamente continuiamo a definire una eccellenza: è evidente il “progressivo rallentamento della crescita della spesa sanitaria, sino al sostanziale azzeramento del tasso medio annuo”, la riduzione della spesa in rapporto al PIL (al 6,4% nel 2022) la contrazione di “tutte le componenti di spesa”, l’aumento dei costi per le famiglie in relazione alla spesa per cure, il taglio costante e continuo dei posti letto (10mila in meno in 6 anni per quanto concerne la degenza ordinaria nelle strutture pubbliche), legato alla chiusura degli ospedali, il taglio dei dipendenti a tempo indeterminato del SSN (43mila in meno in 10 anni).

Come nasce il caos Codogno?

Continuiamo per ora ad attenerci alle parole di Ricciardi, che ha parlato senza mezzi termini di assenza di “unitarietà nazionale nella gestione dei protocolli sanitari”, come di una delle cause del caos dei primi giorni. Per capire di cosa si sta parlando conviene fare un passo indietro e arrivare alla fine di gennaio. È il 29 gennaio quando due turisti cinesi vengono ricoverati allo Spallanzani di Roma, risultando poi positivi al COVID-19. Malgrado un ritardo di qualche ora nella risposta delle autorità sanitarie, la gestione è pressoché impeccabile, Ricciardi la definirà “antologica”: i pazienti vengono condotti allo Spallanzani direttamente dalla loro camera d’albergo, i locali vengono immediatamente isolati e decontaminati, si ricostruisce la catena di contatti della coppia di coniugi e si procede allo screening dei soggetti considerati a rischio. Paradossalmente l'operato dello Spallanzani contribuisce a ridimensionare il problema agli occhi di politica e opinione pubblica (tralasceremo per carità di patria l'entusiasmo per l'isolamento del virus…) e impedisce di prevedere l'ondata che sta per rovesciarsi sul nostro Paese, sicuri come siamo della forza del nostro sistema sanitario e delle nostre "eccellenze".

Nel caso di Codogno, infatti, la gestione è tutt’altro che antologica e tra errori di valutazione dei medici, scelte “discutibili” (e ancora poco chiare) di soggetti a rischio (ovvero provenienti da zone del contagio), visite al pronto soccorso e ritardi nell’individuazione del pericolo, di fatto, il paziente 1 entra in contatto con “una comunità pronta a diffondere il contagio”. Quando la notizia si diffonde, poi, è il caos e comincia la lunga catena di errori determinata da comunicazioni frammentarie, errate e non univoche, ma anche da scelte localistiche e senza alcun supporto scientifico. Ci si muove un po’ alla cieca, soprattutto dopo che un nuovo focolaio “sembra” svilupparsi in Veneto, tanto che Ricciardi riassume: “C’era chi faceva tamponi agli asintomatici, chi faceva tamponi ai contatti, in questo modo si è persa l’evidenza scientifica che impone tamponi solo ai soggetti sintomatici che sono stati in determinate zone”.

La frammentazione regionale e l’assenza di una linea univoca, ma anche l’inadeguatezza dell’intera catena di comando ad affrontare una sfida di tali proporzioni, si rivelano un ostacolo insormontabile per l’applicazione di un rigido protocollo, che si fonda soprattutto sulla precisa e attenta raccolta dei dati, che deve avvenire senza forzature.  Come hanno spiegato Bucci e Marinari, infatti, la “strategia di campionamento dei soggetti da sottoporre a test è stata inizialmente difforme sul territorio nazionale. Il Veneto, ad esempio, ha campionato su base geografica (cerchi concentrici intorno ai comuni della regione e in qualche caso intorno agli ospedali), mentre altre regioni hanno invece campionato soprattutto sulla base della possibilità di infezione connessa alla prossimità con casi già noti”. L’estensione a casaccio delle prove tampone, sotto la spinta “emozionale” di decine di migliaia di cittadini (giustamente) preoccupati dall’emergere improvviso di un focolaio nel “Paese europeo più sicuro”, manda poi immediatamente in crisi la capacità diagnostica delle Regioni più esposte, con i laboratori sommersi da migliaia di campioni, la cui analisi determina comunicazioni schizofreniche, date dalle autorità locali senza mai attendere i riscontri dell’Istituto Superiore di Sanità.

Un caos tremendo, dal quale si proverà a uscire con un altro colpo di teatro: l'annuncio dei test sui soli sintomatici che avessero avuto contatti con i soggetti a rischio (pratica sostanzialmente disattesa) e di una stretta sulla comunicazione di contagiati e decessi. Trovandoci, di fatto, di fronte al problema opposto: l'impossibilità di capire quanto sia ormai vasta la diffusione del virus nelle zone escluse dalla zona rossa.

A che punto siamo ora, quindi?

Acclarato che la caccia al paziente zero è diventata inutile (oltre che sfiancante), le proporzioni della diffusione del coronavirus sembrano indicare “un notevole stato di avanzamento pregresso”.  Sempre Bucci e Marinari spiegano come “analizzando retrospettivamente la curva esponenziale ottenuta, si ottiene che i primi casi gravi dovrebbero essere emersi in una data prossima al 10 febbraio, il che, considerando il rapporto fra casi gravi ed infetti e i tempi di evoluzione della sintomatologia dalla infezione, suggerisce che l’epidemia attualmente in corso non può essere iniziata in una data posteriore all’ultima decina di giorni di gennaio (con la possibilità che sia iniziata anche prima, nel caso la rivelazione di casi gravi in località diverse da quelle attualmente monitorate sia sfuggita)”. Una considerazione condivisa da altri esperti in materia, che si sposa perfettamente con l’analisi fatta da Ilaria Capua sull’illusorietà dell’ipotesi che la Cina potesse contenere il contagio. Perché, fatti salvi gli errori di gestione, il punto è che siamo in presenza di un contagio sostanzialmente inevitabile, di proporzioni destinate a crescere, che presuppone una certa dose di accettazione del rischio.

Contagio inevitabile (forse prevedibile), che però impone scelte serie e drastiche. Cosa che, lo diciamo subito, non sta accadendo. I modelli matematici a nostra disposizione chiariscono bene qual è lo scenario che si prospetta (avvertendo che la previsione è finanche al ribasso, visto il "buco" inspiegabile di dati evidenziato lunedì):

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Dati che vanno letti alla luce di una serie di considerazioni, certo. Come ormai noto, nella stragrande maggioranza dei casi i sintomi sono lievi o inesistenti, tali da non richiedere cure particolari e soprattutto da non richiedere l'ospedalizzazione. Il tasso di letalità resta però alto, così come resta preoccupante il dato sull'ospedalizzazione dei pazienti e, ancora di più sulla possibile saturazione dei posti in terapia intensiva. È un argomento centrale, che ritorna spesso nelle riflessioni di senso di questi ultimi giorni: il virus rischia di far collassare il sistema sanitario nazionale e le misure di contenimento sono necessarie per impedire che la pressione su ospedali e comparto sanitario nel suo complesso diventi insostenibile. La situazione degli ospedali nei pressi delle zone rosse è una anticipazione di ciò che potrebbe accadere a breve sull'intero territorio nazionale.

Come vi abbiamo spiegato, non ci sono ancora stime definitive sulla percentuale di contagiati da coronavirus che necessita di ricovero in terapia intensiva; quello che è certo è che in Italia vi sono poco più di 5mila posti letto (e 1100 in più per quella neonatale), in gran parte nelle aree urbane a più alta densità (la Lombardia sta in fretta e furia predisponendo altri 150 posti letto, da aggiungere ai circa 900 già attivi). Il viceministro Sileri ha spiegato come già attualmente i posti “negli ospedali destinati alla terapia intensiva sono al 90% oggi già occupati”, facendo capire che allo studio vi è un immediato potenziamento del sistema e anche lo spostamento di centinaia di pazienti in ospedale di zone non colpite (cosa confermata anche dal ministro Boccia). Il potenziamento, chiariamolo subito, è necessario e urgente, ammesso che non sia già troppo tardi. Il già citato studio di Marinari e Bucci è chiarissimo:

“Estendendo in avanti ai prossimi giorni l’estrapolazione esponenziale, che gli indicatori statistici mostrano affidabile (certamente e soltanto su tempi abbastanza brevi), e molto più attendibile di un comportamento lineare o a potenza, si nota come il numero di posti letto richiesti in terapia intensiva cresca rapidissimamente nella prima settimana di marzo, configurando una situazione di ovvia crisi per le strutture sanitarie del territorio, poiché potrebbero essere richiesti almeno 350 posti letti in terapia intensiva entro il 5 marzo (ed ancora di più successivamente)”.

Non bisogna poi dimenticare un altro fatto, non meno centrale per importanza: la nostra capacità diagnostica sembra essere arrivata a un punto critico. Detto in altre parole, potremmo non conoscere l'ampiezza del contagio semplicemente perché non siamo in grado di fare un numero sufficientemente ampio di tamponi. Basta considerare solo la crescita "lenta" dei tamponi effettuati negli ultimi giorni (12014, 15695, 18661, 21127, 23345), testimonianza del fatto che, mentre si allarga il contagio, continuiamo a fare poco più di 2mila PCR al giorno e siamo ancora lentissimi nel confermare le positività (in questo caso la centralizzazione all'ISS non sembra aiutare). Francamente non è ancora chiarissimo se questa sia una scelta, un limite o un altro segnale del congestionamento dell'intero sistema (2-3mila PCR al giorno sarebbero un numero imbarazzante in condizioni ordinarie, figurarsi in uno stato emergenziale).

Cosa (non) sta facendo il governo

Questa emergenza sanitaria va affrontata con razionalità, seguendo dei protocolli rigidi, perché altrimenti diffondiamo false sicurezze, che sono illusorie e compromettono il sistema che abbiamo messo su per il contenimento”. È l’esatto momento nel quale Giuseppe Conte si accorge che forse la situazione sta sfuggendo di mano e che non è il caso di lasciar fare alle Regioni. Non fosse stato prima di tutto il governo a diffondere false sicurezze ci sarebbe anche da dargli ragione; così come sarebbe stata apprezzabile una risposta rapida ed efficace. Il problema è che così non è stato e che ci sia preoccupati più di gestire la crisi da un punto di vista comunicativo che da quello della risoluzione dei problemi.

Dopo i primissimi interventi (le zone rosse) e dopo un bel po’ di polemiche con le Regioni, nel giro di un paio di giorni ci si è soffermati più sulla questione economica che su quella sanitaria. Non fermare il Paese per non causare danni gravissimi al comparto economico è diventato una sorta di mantra, che inevitabilmente ha influito sulle scelte che l’esecutivo, le Regioni e i Sindaci hanno compiuto. Anche in questo caso, però, la sensazione è quella di aver completamente sbagliato la prospettiva. Perché i danni maggiori all'economia arriverebbero proprio nel caso in cui non si riuscisse a contenere il contagio: un disastro di proporzioni enormi, che nulla avrebbe a che vedere con le problematiche economiche determinate dal lockdown delle aree interessate per un periodo di tempo limitato.

Andrea Capocci, che tra le altre cose si occupa di scienza per Il Manifesto, spiega in modo semplice perché le misure di isolamento sociale sono cruciali per il contenimento dell’epidemia.

La sensazione è che ancora non ci sia piena coscienza del rischio che stiamo correndo e che si continuino a sottovalutare le conseguenze della diffusione rapida del coronavirus. Mentre la Lombardia è già in una fase di pre-lockdown (con l’invito agli ultra 65enni a non uscire di casa, le scuole chiuse e gli appelli alla cautela della Giunta), si continua ad assistere a un dibattito surreale sulla necessità di “non fermarsi”, sul rischio zero nelle Regioni non direttamente coinvolte e, addirittura, sulla possibilità che gli eventi e le manifestazioni sportive debbano tenersi come se niente fosse.

Il tutto aumenta la confusione nella comunicazione rivolta ai cittadini, l’altro tasto dolente dell’intera vicenda. Due dovevano essere i concetti da chiarire agli italiani: niente panico per quanto concerne gli effetti diretti del virus; grande senso di responsabilità nei comportamenti individuali, per il contenimento del contagio e la tutela delle fasce di popolazione più esposta. Le cose sono andate diversamente e all’allarmismo sul virus (corsa alle mascherine, episodi di discriminazione nei confronti dei contagiati e via discorrendo) si sono sommati comportamenti discutibili e sbagliati, a metà strada fra la deresponsabilizzazione e l’incoscienza (fughe dalla quarantena e dalle zone rosse, mancato rispetto dei protocolli sanitari di base, assalto ai generi alimentari). Nel mezzo, una scia infinita di polemiche: tra maggioranza e opposizione, tra maggioranza e maggioranza (semplicemente lunare il dibattito a colpi di retroscena su un cambio di governo in piena crisi) e tra la politica e i giornalisti. Quest'ultimo punto meriterebbe una trattazione a parte, visto che per giorni si è scaricata la responsabilità del "panico" sui giornali (Di Maio ha parlato di "infodemia"), chiedendo più o meno esplicitamente una "inversione della narrazione", per poi fare una nuova marcia indietro di fronte all'evidenza dei fatti. Insomma, confusione e superficialità, dove sarebbero serviti polso e serietà. Misure chiare, semplici e decise, che rendessero chiaro ai cittadini il senso di una emergenza da cui si esce solo tutti insieme. L'esatto contrario dell'allarmismo e dello scenario di guerra, paradossalmente.

Il primo provvedimento del governo è stato un brodino caldo. Le prime raccomandazioni dell'ISS (il tanto strombazzato "decalogo per combattere il virus") un tentativo velleitario e inefficace. Servono misure più incisive, ma soprattutto serve diffondere la consapevolezza che si tratta di una sfida dura e complessa, dalla quale si esce solo con un grande sforzo di responsabilità individuale e collettiva. Lo scrive di nuovo Ilaria Capua su Fanpage.it: "Questa è una catena di azioni, una catena di solidarietà: ed è una catena che dev’essere forte, perché la catena deve tenere. E la forza della catena è legata all’anello più debole. Basta una sottovalutazione per far capitare il peggio: che tante persone a rischio vengano contagiate e abbiano bisogno di posti in terapia intensiva. Che non sono infinti: al contrario, sono molto pochi".

Un primo segnale di serietà pare (pare) che il governo voglia darlo ascoltando le raccomandazioni del comitato scientifico, dunque diramando indicazioni più stringenti e comunicando con chiarezza ai cittadini cosa sta succedendo. Così come pare (pare) si vada verso un allargamento delle zone rosse, sperando che le bolle Milano e Roma non scoppino prima che sia troppo tardi.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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