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Perchè si può puntare sull’Italia (e perchè no)

Si può scommettere sulla ripresa italiana? Sì secondo il Credit Suisse che suggerisce di sovrappesare i titoli italiani in portafoglio. Non sarà tanto l’euro (debole) a dare una mano, quanto il graduale recupero di competitività, sempre che si riformi il modello del mercato del lavoro che ormai tutela solo chi il lavoro ce l’ha.
A cura di Luca Spoldi
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Piccoli movimenti, grandi aspettative: sui mercati dei cambi si nota oggi una tendenza al recupero da parte sia della sterlina sia del dollaro, con l’euro indicato rispettivamente a 0,8399 e  a 1,3417, complice il diffondersi della sensazione che l’era del “denaro a costo zero” o quasi stia per volgere al termine in Gran Bretagna come negli Stati Uniti. Nel primo caso, in particolare, sono tornate a salire le attese di un modesto irrigidimento della politica monetaria della Bank of England dopo che nel suo ultimo report macroeconomico trimestrale l’istituto centrale ha segnalato che è “più probabile che non” una discesa del tasso di disoccupazione dall’attuale 7,6% fino sulla soglia del 7% nel terzo trimestre del 2015, con sei mesi d’anticipo rispetto alle previsioni precedenti che parlavano di secondo trimestre 2016. Questo, ha aggiunto la banca centrale, consentirebbe di valutare se procedere con un eventuale primo rialzo dei tassi, tuttora sul minimo storico dello 0,5%,

Dall’altra parte dell’Atlantico, negli Usa, si attende in giornata la testimonianza di Janet Yellen (destinata dal primo febbraio del prossimo anno a subentrare a Ben Bernanke alla guida della banca centrale Usa) davanti alla Commissione bancaria del Senato Usa. La Yellen non parla in pubblico da oltre sei mesi ed è dunque l’occasione per capire se il prossimo numero uno della Fed è tra coloro che sono propensi a rallentare gli acquisti di bond sul mercato (che finora proseguono al ritmo di 85 miliardi di dollari al mese), primo passo per iniziare a ridurre un bilancio che tassi virtualmente pari a zero e continue iniezioni di liquidità sul mercato hanno gonfiato fino ad arrivare ad oltre 4 mila miliardi di dollari di attivo, suscitando critiche sempre più feroci soprattutto di natura politica (in particolare i Repubblicani, pressati dagli esponenti del “Tea Party” vorrebbero ridurre drasticamente tanto il budget federale quanto il bilancio della Fed).

Per contro in Europa dopo il taglio di un quarto di punto dei tassi sull’euro deciso a inizio mese dalla Bce, sono in molti a valutare positivamente ulteriori misure distensive che potrebbero tradursi in un abbassamento ulteriore dei requisiti per i collaterali (titoli che le banche debbono presentare a garanzia dei finanziamenti ricevuti dalla Bce) o in una terza Ltro (Long term refinancing operation), anche se le banche, per evitare “stimmate” di sorta l’anno venturo, quanto la stessa Bce annuncerà i risultati di uno stress test partito in questi giorni e destinato a durare fino a dopo l’estate 2014, stanno continuando a rimborsare i vecchi prestiti, cosa che hanno fatto anche UniCredit (che ha da poco rimborsato un altro miliardo di euro, dopo i 2 miliardi rimborsati in luglio, facendo scendere il debito residuo a 23,1 miliardi) e Intesa Sanpaolo (altri 3 miliardi di fondi restituiti, dopo i 12 miliardi rimborsati nel secondo trimestre dell’anno, che fanno scendere il debito residuo con la Bce a 21 miliardi).

Qualcuno non esclude persino che Mario Draghi possa decidere di azzerare del tutto i tassi sull’euro (magari portando in territorio negativo i tassi sui depositi che le banche mantengono presso la Bce) per cercare di far finalmente arrivare lo stimolo monetario anche alle imprese, personalmente lo giudico improbabile e forse poco utile. Come non si crea lavoro per decreto, infatti, non è possibile creare ripresa semplicemente “gettando” dollari dall’elicottero, per usare un’espressione utilizzata a suo tempo dallo stesso Bernanke, anche se… I puntini sospensivi sono d’obbligo visto che, in attesa che la politica europea vari un’unione politica e fiscale che sola consentirebbe di risolvere una volta per tutte i disequilibri macroeconomici che la “cura tedesca” a base di repressione fiscale seguita in questi ultimi anni ha semmai accentuato, non certo risolto, solo l’attenta opera di Draghi ha evitato che i mercati del credito rimanessero del tutto disfunzionali aggravando ulteriormente la stretta creditizia e di conseguenza la recessione economica, trasformandola in una piena depressione.

Un euro debole (o un dollaro e una sterlina forte), basterà a far riprendere le economie della “periferia” del vecchio continente? Non tutti ne sono convinti. Gli uomini del Credit Suisse, ad esempio, ricordano come l’euro debole si sposi tipicamente con una sottoperformance dei mercati finanziari della periferia europea. Ciò detto gli analisti notano anche come l’ulteriore distensione della politica monetaria Bce (Berlino permettendo) ridarebbe più slancio, in proporzione, alle Pmi, che rappresentano una percentuale maggiore del tessuto economico di paesi come Spagna e Italia che non di nazioni come Germania e Francia (o, fuori dall’euro, Inghilterra), e come più in generale la revisione al rialzo delle previsioni di utili potrebbe avvantaggiare la periferia rispetto ai paesi “core” europei. Non che non vi siano problemi: molti fondamentali macroeconomici ancora sensibilmente più deboli nei “PIIGS” che nei paesi “core”; in Spagna il leverage, il Pil e i prezzi del mercato immobiliare si stanno solo ora riportando in trend; l’andamento dell’export e del costo del lavoro in Italia, come pure il suo livello di competitività, confermano che ancora troppo poco è cambiato.

Proprio l’Italia, tuttavia, viene indicata come un mercato da sovrappesare (a fronte di un portafoglio di investimenti in cui si consiglia di sovrappesare la componente azionaria europea, proprio incrementando l’esposizione verso i “PIIGS”), perché ad esempio a paragone della Spagna il Belpaese, nonostante tutto, ha una serie di atout da giocare che non sembrano essere ancora pienamente scontati dagli investitori. L’Italia secondo gli uomini del Credit Suisse ha infatti prospettive di crescita del Pil nel 2014 leggermente migliori (+0,8% contro +0,6% secondo la banca svizzera), un incremento degli ordini alle Pmi nei prossimi sei mesi superiore e prospettive analoghe in termini di andamento della bilancia commerciale (che in termini di punti del Pil è passata da un contributo negativo del 4% nel 2011 a circa un +1% atteso a fine anno). I conti pubblici italiani sembrano poi essere tornati più rapidamente in ordine (sia pure al prezzo di una spremitura fiscale senza precedenti, ndr), con un surplus primario stimato intorno al 3,1% del Pil l’anno venturo (il più elevato tra tutti i paesi sviluppati), anche se il deficit/Pil complessivo dovrebbe mantenersi attorno al 2,1%, contro un deficit primario stimato pari al 2,6% per la Spagna (sotto questo profilo peggio di Madrid dovrebbero fare solo la Gran Bretagna e il Giappone).

Ulteriore punto di forza, il settore privato italiano è dopo la Germania il meno levereggiato d’Europa, ossia anche prima della crisi (e ancor più dopo il “credit crunch” di questi ultimi anni) le aziende italiane si indebitavano meno delle proprie rivali (per quanto questo sia avvenuto non solo per “virtù”, quanto a causa di costi più elevati che nel resto d’Europa, a loro volta dovuti al minor grado di concorrenza esistente nel settore creditizio italiano). Il pagamento di arretrati da parte della PA italiana per circa il 3% del Pil entro i prossimi 6-12 mesi, aggiungono gli esperti, dovrebbe ulteriormente supportare, almeno in parte, un rilancio della crescita mentre la ripresa della produzione manifatturiera europea, quando avverrà (è di oggi il dato di Eurostat secondo cui ancora a settembre la produzione industriale della Ue-17 è calata dello 0,5% su base mensile, ovvero dell’1,1% su base annuale, con l’Italia tra i fanalini di coda della classifica annuale con un -3%), non potrà che favorire un paese come l’Italia in cui il 24% del Pil è ancora rappresentato dalla produzione manifatturiera.

Il punto nodale, posto che anche in termini di riforme pensionistiche l’Italia, checchè sembri pensarla una parte del mondo politico domestico, si è mossa prima e meglio di molti altri paesi europei e che finanche sul fronte del taglio del cuneo fiscale (finalmente avviato, anche se per soli 2,5 miliardi di euro secondo le previsioni della Legge di Stabilità 2014 in questi giorni all’esame del Parlamento) qualcosa si sta muovendo, sembra dunque restare il mercato del lavoro. Qui c’è poco da dire: il modello italiano, iperprotettivo nei confronti degli “insider” e pertanto sempre più rigido e chiuso (come ben sanno i giovani e le donne, o chi ha la sventura di “cadere fuori” dal giro), resta poco competitivo e rischia di farci perdere altro terreno, così come uno scenario politico sempre fragilissimo e dove si fatica a superare leader e schieramenti vecchi di due decenni e ormai del tutto inadeguati a gestire il presente e progettare il futuro.

Tutto sommato, però, il fatto stesso che i titoli italiani consigliati siano abbastanza eterogenei come comparti (si tratta in particolare di Intesa Sanpaolo, Mediaset, Snam, Terna Rete Elettrica e Prysmian), sembra indicare che forse le condizioni per assistere finalmente a un recupero sono sufficientemente diffuse da non essere più considerate delle “eccezioni” a una regola di generalizzato declino. C’è da sperare che sia così e che nel frattempo si aprano nuovi spazi per un ricambio della classe dirigente e produttiva che da troppi anni auspico invano.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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