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Draghi taglia i tassi sull’euro, riuscirà a rianimare la crescita?

La Bce annuncia un taglio dallo 0,5% allo 0,25% del tasso sulle operazioni di rifinanziamento principale dell’Eurosistema e Draghi spiega: inflazione resterà bassa a lungo e a lungo rimarranno bassi i tassi. Esulta Letta: una misura a favore della crescita. E’ vero, ma ora non bisogna dormire sugli allori…
A cura di Luca Spoldi
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Mario Draghi è pronto a prendere la staffetta da Ben Bernanke: mentre il Pil americano accelera nel terzo trimestre dell’anno salendo del 2,8% annualizzato rispetto al +2,5% segnato nel trimestre precedente (superando le attese di consenso che parlavano di una frenata a +2%), dato che potrebbe indurre la Federal Reserve ad avviare già in dicembre il “tapering” ossia il processo di graduale azzeramento degli acquisti di bond sul mercato con cui la stessa banca centrale Usa ha provveduto in questi mesi a fornire ulteriori stimoli per cercare di irrobustire una ripresa che per più di un osservatore continua peraltro a presentare profili di estrema fragilità al di là dei dati statistici, la Banca centrale europea stamane ha annunciato un taglio di 25 punti base, dallo 0,50% allo 0,25% (nuovo minimo storico assoluto), del tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento principali dell’Eurosistema. Il taglio decorrerà dall’operazione con regolamento il prossimo 13 novembre. Il tasso di interesse sulle operazioni di rifinanziamento marginale è stato a sua volta ridotto di 25 punti base, dall’1% allo 0,75%, sempre con effetto dal 13 novembre 2013, mentre il tasso di interesse sui depositi presso la banca centrale rimane invariato allo 0,00%.

Dopo il doppio annuncio, l’euro ha subito perso quota ridiscendendo appena sopra la soglia di 1,33 contro dollaro, come auspicato anche dal premier italiano Enrico Letta secondo cui la mossa di Draghi “dimostra che la Bce ha a cuore le sorti della crescita e competitività europea” ed è dunque da considerarsi “una scelta importante e positiva, mirata a contrastare il rafforzamento abnorme dell’euro sul dollaro che è una delle difficoltà di questi mesi”. Il taglio dei tassi, ha concluso Letta, che parlava da Dublino “è uno stimolo ad andare avanti sulla strada intrapresa” e continuare “sulla strada degli investimenti e della crescita”. Che qualcosa fosse nell’aria lo si era capito del resto già negli ultimi giorni dal deciso allungo dei titoli del settore finanziario (e in generale di quelli sensibili ai tassi d’interesse e al ciclo economico) sulle principali borse europee, e particolarmente su quelle di Madrid e Milano, nonché dalla sempre migliore accoglienza delle ultime aste di titoli di stato italiani e spagnoli e dalla compressione di rendimenti e spread (oggi il Btp decennale guida rende il 4,21%, il Bonos spagnolo di pari durata il 4,15%, mentre un Bund decennale paga l’1,74%).

Più ancora, erano stati gli ultimi dati macro che mostravano un’inflazione in ulteriore brusco calo a far scattare un campanello d’allarme che Draghi ha subito colto, tanto che in conferenza stampa ha poi spiegato che le stime della Bce indicano “un prolungato periodo di bassa inflazione” ed altrettanto “prolungato” sarà dunque il periodo durante quale i tassi resteranno bassi. Anzi, Draghi, che pure non vede il rischio di deflazione, non ha neppure escluso che i tassi possano scendere ancora, il che li porterebbe ad allinearsi a quelli sul dollaro che ormai da metà dicembre 2008 sono mantenuti dalla Federal Reserve tra lo 0 e lo 0,25%. Per capire cosa ciò potrebbe significare basti ricordare che Bernanke annunciò tale decisione dopo che il dato dell’inflazione del novembre 2008 era sceso all’1,1% su base annua e che attualmente l’inflazione è ancora attorno all’1,2% , anche se i tassi sui T-bond, scontando un graduale azzeramento degli acquisti sul mercato, che finora la Federal Reserve ha attuato al ritmo di 85 miliardi di dollari al mese, sono ormai saliti sul 2,63% a livello di bond decennali e sul 3,76% per i titoli trentennali (mantenendosi invece tra lo 0,05% e lo 0,09% sulle durate tra i 3 e i 12 mesi).

Morale della favola: Draghi, che per statuto deve limitarsi a garantire una stabilità dei prezzi che significa cercare di ottenere un’inflazione tra l’1% e il 2% annuo (utile ai paesi debitori come l’Italia per comprimere parte del costo sul debito pubblico, tra l’altro), continua a utilizzare ogni possibile leva monetaria di cui dispone mantenendosi in equilibrio tra le esigenze del Sud Europa, alle prese con una violenta “stretta creditizia” (dovuta alla volontà di riduzione del debito privato) e contemporaneamente con una “stretta fiscale” (dovuta alla necessità di tenere sotto controllo il debito pubblico), e le esigenze del Nord Europa, dove di credito ce n’è fin troppo, tanto che alcuni governi come quello danese hanno già dovuto annunciare provvedimenti (peraltro ancora da approvare in sede parlamentare) per riequilibrare situazioni di mercato sempre più pericolosamente sbilanciate a causa dell’incremento massiccio di emissioni di bond a breve e brevissimo termine (si stima che tra il 30% e il 40% del mercato dei mortgage bond, ossia le obbligazioni collegate ai flussi di pagamento dei mutui, abbia una scadenza di 12 mesi nonostante con questi strumenti le banche rifinanzino mutui e prestiti con scadenze fino a 30 anni) che fanno crescere sempre di più il rischio di una nuova “bolla” analoga a quella creatasi sui mutui subprime negli Usa, dolorosamente esplosa tra il 2006 e il 2007 ed alla base del fallimento di Bear Stearns e Lehman Brothers nel 2008 e a tutta la crisi economico-finanziaria che da allora ne seguì.

Un Draghi sempre più simile ad Alan Greenspan, “maestro” di Ben Bernanke che a differenza del suo allievo più che iniettare dollari sul mercato ha sempre preferito sfruttare i tassi e l’effetto-attesa (non per nulla era denominato “la sfinge”), contribuendo per alcuni a gettare i semi delle future bolle speculative ma di fatto limitando, durante i suoi mandati, l’onere per i contribuenti. Va da sé che siccome come detto Draghi deve rimanere in equilibrio tra necessità per molti versi diametralmente opposte il rischio che prima o poi il giocattolo si rompa resta elevato e che sarà necessario, ancora una volta, che sia la politica (fiscale e non solo) a trovare il modo di ridurre le distanze tra Nord e Sud, appianando quelle divergenze che ancora impediscono un pieno funzionamento del mercato del credito e continuano a minare la costruzione dell’euro al di là delle fluttuazioni dei cambi. Speriamo che i politici, a Berlino come a Roma, Parigi o Madrid, capiscano che è ora di agire e non si limitino a cullarsi sugli allori. Sarebbe un errore tragico di cui tutti noi finiremmo col pagare le conseguenze, anche se per ora possiamo solo essere soddisfatti dell’operato della Bce sotto la guida dell’ex governatore di Banca d’Italia.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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