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Palermo, donna morta per dose letale di chemio, il giudice: “Assassinio in piena regola”

Valeria Lembo morì nel 2011 al Policlinico di Palermo per una dose letale di farmaco. Per le motivazioni con cui sono stati condannati l’oncologa, il primario e uno specializzando, gli imputati avrebbero solo pensato “a negare qualsiasi assunzione di responsabilità, incolpandosi a vicenda”.
A cura di C. T.
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Un "assassinio in piena regola". Così nelle 277 pagine di motivazione della sentenza di condanna di medici e infermieri il giudice Claudia Rosini ha definito la morte di Valeria Lembo, morta a trentaquattro anni nel 2011, uccisa da una dose letale di chemioterapico iniettatole nel reparto di Oncologia del Policlinico di Palermo. Secondo Rosini si tratta della "più grave colpa medica mai commessa al mondo" e dopo la quale gli imputati hanno solo pensato "a negare qualsiasi assunzione di responsabilità, incolpandosi a vicenda". Il processo ha portato alla condanna a sette anni dell'oncologa Laura di Noto, che richiese la dose killer, e a quattro anni e sei mesi del primario Sergio Paliemeri, sempre presente.

La donna, mamma di un bambino di sette mesi, è morta il 29 dicembre del 2011, dopo un'agonia durata ventidue giorni. Stava curando un linfoma di Hodgkin, una forma di tumore che garantisce la guarigione nell'80% dei casi. Da quelle sedute, però, il corpo di Valeria era uscito completamente devastato a causa di un errore di trascrizione nella cartella e di molta incuria: al posto di 9 milligrammi di Vinblastina, gliene furono iniettati 90, una dose compatibile "con un pachiderma di 600 chili". Più volte la donna veva chiesto lumi su quella dose tanto massiccia in flebo e non in siringa, come le precedenti, ottenendo risposte di sufficienza. "È lo stesso", le aveva risposto l'infermiera Elena Demma.Valeria si era anche lamentata, terrorizzata – come aveva confessato alla zia – che le stessero "sbagliando la chemio". Aveeva chiesto di interrompere la seduta, dicendo di avere bruciore al braccio. Ma la dottoressa Di Noti aveva solo rallentato la somministrazione, dice il giudice, "senza porsi alcuna domanda". Secondo il magistrato Claudia Rosini "l'utilizzo del termine assassinio non è casuale, perché di questo si è trattato, avendo gli imputati cooperato a cagionare la morte di una paziente per avvelenamento somministrandole una dose di vinblastina dieci volte superiore a quello dovuto".

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