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Opinioni

Italia, un paese per camerieri e commessi

Mentre del lavoro nessuno parla in campagna elettorale, l’Italia si conferma un paese poco favorevole a laureati e figure professionali specializzate. Siamo destinati a diventare un paese di camerieri e commessi?
A cura di Luca Spoldi
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Commesso

Il lavoro, lo ripeto da tempo, resta “misteriosamente” (ma non troppo) il grande assente di questa campagna elettorale tutta giocata sulle tasse, che indubbiamente sono troppe e andrebbero ridotte, peccato che stante l’attuale fase economica e gli impegni presi con l’Europa è difficile pensare possano essere “facilmente” compensate con tagli alla spesa, che peraltro avrebbero comunque effetti recessivi nell’immediato. Perché di lavoro non si parla? Forse perché la soluzione fin qui individuata per uscire, a medio-lungo termine, dalla crisi economico-finanziaria-debitoria del Sud Europa prevede, purtroppo, una deflazione interna che da un lato porta inevitabilmente ad accentuare pressioni ribassiste sui prezzi tanto dal lato dell’offerta quanto della domanda (in soldoni: stipendi che non aumentano, anzi tendono a calare, tanto nel settore pubblico quanto in quello privato, e tempi di pagamento che restano molto elevati specialmente nel settore privato), dall’altro sembra offrire come unica valvola di sfogo al mercato del lavoro quella dell’emigrazione.

Non che sia una novità assoluta: in questi ultimi due anni si è già notato un aumento dell’emigrazione in particolare giovanile dagli stati del Sud Europa come Grecia, Portogallo e Spagna, verso quelli del Nord Europa o verso stati extraeuropei, dall’Asia all’America. Il punto è che il processo sarà lungo e doloroso: lungo perché se a fine novembre scorso erano disoccupati, come ricorda l’Istat, 641 mila residenti italiani tra i 15 e i 24 anni, pari il 37,1% delle forze di lavoro di quell’età e il 10,6% della popolazione complessiva della stessa età, saranno necessari almeno 9-10 anni prima che tutti trovino lavoro all’estero visto che il saldo netto di coloro che per lavoro decidono di lasciare l’Italia è attorno a 50-60 mila unità l’anno; doloroso perché, oltre al disagio psicologico e materiale che affrontano coloro che debbono emigrare “obtorto collo” e non solo per propria scelta, l’emigrazione riguarda sempre più spesso non giovani con basso grado di scolarizzazione e la classica “valigia di cartone”, come un secolo fa, ma laureati e figure specializzate che in Italia non vengono richieste dalle aziende.

In questo senso non importa chi vincerà le elezioni del 24 e 25 febbraio prossimo: dovendo sottostare ai vincoli sottoscritti dal governo Berlusconi in sede europea nel 2011 e ribaditi dal governo Monti l’anno scorso, e salvo che non migliori drasticamente il quadro macro congiunturale (cosa che al momento nessuno prevede), chi governerà il paese a partire dalla prossima primavera dovrà impegnarsi in riforme strutturali che mutino un sistema economico che da 16 anni non riesce a crescere neppure ad un tasso pari agli interessi che paga sul debito (alimentando così circoli perversi destinati a vanificare buona parte degli sforzi “virtuosi” legati alle ripetute manovre correttive di bilancio fatte in passato e che si faranno in futuro) e dove le aziende, come segnala una ricerca di Datagiovani su fonti Unioncamere, continuano a cercare profili a media specializzazione, in primis nel commercio e nei servizi.

Lo scorso anno, ad esempio, su 200 mila nuovi ingressi programmati per quanto riguarda gli under 30, oltre 23mila sono stati rappresentati da commessi delle vendite al dettaglio, seguiti da magazzinieri e camerieri (entrambi intorno a quota 6mila richieste), impiegati e segretari (categorie entrambe oltre quota 5 mila), mentre vicini a quota 3mila si trovano figure leggermente più “specializzate” come informatici, cuochi e contabili. A riprova che l’Italia sia ormai un paese poco ospitale per i suoi (pochi) migliori laureati fra i 32 mestieri dove gli “ingaggi” preventivati quest’ano superano le mille unità, le figure ad elevata specializzazione sono solo sette, a partire da analisti e progettisti di software, contabili e tecnici della vendita, per i quali si stimano tra i 2 e i 3 mila nuovi ingressi nel mondo del lavoro.

Se a tutto questo aggiungiamo che le aziende nel 48% dei casi preferiscono assumere diplomati (specie se ad indirizzo amministrativo-commerciale, meccanico, turistico-alberghiero e informatico), mentre la laurea è richiesta solo nel 15,4% dei casi (soprattutto in economia, ingegneria o medicina) e per un 10% delle assunzioni è addirittura sufficiente una qualifica professionale, il quadro di un sistema dove alle disfunzioni del sistema educativo (le università stentano a formare figure professionali richieste dalle aziende) si somma un modello di sviluppo fin troppo tradizionale, non riesce ad assorbire profili altamente qualificati, è completo e fin troppo noto a politici (e imprenditori e banchieri) perché qualcuno di loro osi ricordarlo in campagna elettorale.

Segno, purtroppo, che nessuno ha seriamente idea di quale soluzione proporre per modificare questo stato di cose. O segno, secondo il modesto parere di chi scrive anche peggiore, che in fondo a tutti va bene così. Come sarà possibile in queste condizioni far ripartire gli investimenti diretti dall’estero che secondo un report di Morgan Stanley potrebbero e dovrebbero costituire la “fase due”, dopo le riforme destinate a far recuperare competitività al sistema economico italiano, per ridare vigore al tessuto economico tricolore e far finalmente decollare un Pil da quasi un ventennio rimasto fermo in termini reali, nessuno mi pare si stia azzardando a dirlo. Altra conferma di quanto in fondo sia poco “misteriosa” l’assenza del tema del lavoro dalle discussioni pubbliche dei massimi esponenti della nostra classe dirigente, il cui rinnovo è dunque quanto mai urgente e necessario. A meno che non ci si accontenti dei posti che promette la pubblicità di un noto franchising di fast food in onda sulle principali reti televisive italiane in questi giorni, naturalmente.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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