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Opinioni

Debito e lavoro, relazione perversa

Il lavoro e la ripresa restano al centro dei discorsi e delle promesse di tutte le forze politiche italiane. Che però non stanno in alcun modo modificando le condizioni necessarie a tradurre i buoni propositi in realtà…
A cura di Luca Spoldi
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Quirinale - cerimonia scambio auguri fine anno alte cariche della Stato

Gli italiani debbono tornare a investire in capitale umano nel 2013, Mario Monti dixit, in ideale duplex col presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, secondo cui il tema centrale attorno al quale dovrebbero sforzarsi maggiormente politici, imprenditori e banchieri è il lavoro, “componente essenziale” della nostra società. Dichiarazioni talmente condivisibili, per non dire scontate, che sembrano più buoni propositi sotto l’albero di Natale che non concreti manifesti di una qualche addivenendo politica economica. Che il lavoro resti il tema centrale di questa crisi è evidente, che rischi di rimanere tale ancora a lungo lo è purtroppo altrettanto quindi attenti a non cadere preda di facili illusioni.

Perché gli italiani, aziende e famiglie, hanno iniziato a disinvestire in capitale umano, non solo licenziando ed “esternalizzando” a più non posso (come ben sa il “popolo delle partite Iva”) ma anche (come già segnalato) riducendo per la prima volta da anni la spesa per l’istruzione dei propri figli e continuando a fuggire via dal paese, tanto che quest’anno il saldo netto in termini di italiani che saranno divenuti residenti esteri risulterà quasi doppio rispetto al saldo netto degli stranieri che nel frattempo sono divenuti residenti italiani? Per una serie di motivi che non sembrano essere stati in alcun modo rimossi né (temo) lo saranno a breve.

Punto primo: le aziende non investono e anzi tagliano costi (e il costo del lavoro in particolare) e posti perché l’Italia ha perso costantemente competitività da quando ha aderito all’euro ad oggi (il 30% contro la Germania, il 20% in media rispetto all’intera Eurozona). Sintomo di un paese che non è mai riuscito ad andare oltre la strategia di brevissimo termine delle “svalutazioni competitive” che la vecchia e cara lira  (cara in tutti i sensi, in particolare in termini di inflazione, come si scopriva andando oltre i confini patrii) ha consentito per decenni, tanto che ancor oggi un manipolo di sciagurati, ignavi, ignoranti e opportunisti ancora adesso prova a proporre come “soluzione” ai problemi il ritorno alla valuta nazionale (senza mai spiegare né calcolare puntualmente i costi associati e la distribuzione dei medesimi che, indovinate un po’, colpirebbero consumatori e strati medio e medio-bassi della popolazione).

Ma sintomo anche di un paese in cui il debito, come ha spiegato l’economista Mario Seminerio riprendendo un pezzo di Federico Fubini sul Corsera, per evitare di autoalimentarsi come invece sta succedendo al momento (nonostante le “cure da cavallo” amorevolmente fatte assumere alla nazione dall’attuale premier per cercare di mettere in sicurezza il paese dopo decenni di mala gestione precedenti) dovrebbe crescere in termini nominali almeno del 3%, ossia se si avesse un’inflazione stabile attorno al 2% di almeno un 1% in termini reali, sperando che nel frattempo il costo sul debito stesso si “normalizzasse” e ridiscendesse dal 4,5%-5% attorno a cui tuttora oscilla ad un 3%-35% (col che i tagli di spesa e/o aumenti di imposta di Monti consentirebbero effettivamente di veder calare a fine anno il rapporto debito/Pil e forse, col tempo, l’ammontare in valore assoluto del debito, ormai superiore ai 2 mila miliardi di euro).

Infatti, in un momento in cui il debito va ridotto ma contemporaneamente è difficile (per i motivi più volte detti) che le banche finanzino la ripresa, è più facile che si cerchi di recuperare produttività con tagli dei costi che non con investimenti in nuova tecnologia e produttività, come invece ritengo sarebbe necessario per ridare concrete speranze e opportunità agli italiani per sé e per le generazioni future.  Il debito pregresso e la pregressa perdita di competitività pesano insomma come macigni sulla possibilità di futuri investimenti e di futura crescita, ergo sulle future possibilità di lavoro. C’è poi un secondo punto: le aziende continuano a preferire battaglie ideologiche sul costo del lavoro, che pure non pesa più del 6%-8% in rapporto al reddito prodotto, perché il costo vero che grava sulle imprese, il cuneo fiscale, continua a non essere neppure scalfitto e con questa impostazione non lo sarà ancora per molto tempo vista l’esigenza di risanare i conti e l’impostazione di cui si è detto sopra.

Così non potendo per ora sperare in minori imposte (ormai arrivate nel complesso a pesare mediamente oltre il 52% del reddito d’impresa) e non osando investire “al buio” neppure in produttività (perché a fronte di una domanda interna calante in funzione del reddito disponibile a sua volta in calo e di una crescita internazionale incerta, si rischierebbe di investire per nulla, tesi cara ad esempio al numero uno di Fiat, Sergio Marchionne) le aziende tagliano. Le famiglie a loro volta non avendo alcuna concreta speranza di migliorare a breve il proprio tenore di vita tagliano a loro volta i costi, partendo dal superfluo ma arrivando ormai anche agli investimenti a lungo termine, quelli nell’istruzione, il cui ritorno appare molto meno certo che in passato. Nel frattempo tutti gli esponenti politici continuano a dichiarare solennemente che cercheranno di far ripartire la crescita, che il lavoro è importante, che occorre superare questa crisi. Nessuno però sembra avere anche solo  una lontana idea di come fare, forse perché nessuno ha sufficiente credibilità per convincere la Germania e gli altri partner europei e mondiali a scommettere nuovamente sull’Italia, condizione necessaria (anche se forse a breve non sufficiente) per tradurre i buoni propositi in realtà concreta.

P.S. In uno stato democratico costi e benefici di qualsiasi scelta politica (e di politica economica in particolare) dovrebbero essere equamente ripartiti. Ci si dovrebbe dunque augurare che i chi ha maggiormente beneficiato in passato della (non) politica industriale (e culturale) italiana sia disposto ad assumersi maggiori costi per far ripartire il paese o che coloro a cui i costi saranno maggiormente addossati potranno maggiormente beneficiarne in futuro. Ma questo è proprio tutto un altro discorso, di cui non è detto riescano a tener conto gli elettori italiani da qui alla prossima tornata elettorale del febbraio 2013. Si vedrà.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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